TOMASO FRANCO
IL TESORO DI RUGGINE
SECONDO IL GIUDIZIO DI BARBERI SQUAROTTI “UNA DELLE POCHE OPERE SICURE E DURATURE DEL ‘900”
E’ un libro di straordinaria potenza, uno dei più grandi affreschi sulle tragedie che sconvolgono e distruggono la vita di un bambino, che assiste a eventi disumani e tragici assolutamente superiori alle sue facoltà di percezione stralunato, atterrito, travolto, abbacinato, annullato dall’esperienza indicibile della guerra che porta via tutto, persone care, amori, affetti, amicizie, sogni, ricordi, illusioni, speranze, la vita stessa. Dopo aver letto l’ultimo indimenticabile e travolgente capitolo dodicesimo scritto in uno stile convulso, spasmodico, angoscioso e affannoso il lettore rimane traumatizzato da tanta forza narrativa e da tanta smemoria. Sì perché il libro è pieno di “non ricordo”, “non posso dire”, di “non so”, di “mi pare”, “mi sembra”, “forse”, una memoria-smemoria che attanaglia il lettore e lo lascia senza fiato. Un libro quello di Tomaso Franco che solo il più grande critico italiano Giorgio Barbari Squarotti poteva definire con queste parole “Carissimo Tomaso, il tuo romanzo è bellissimo, il più intenso e strenuo che abbia letto da almeno un paio di decenni e anche più; e appare come una delle poche opere narrative del Novecento sicure e durature. L’ho sentito straordinariamente vicino a me, perché ho attraversato analoghi eventi di guerra e di distruzioni, di lotta civile, di crudeltà e disperazione, ben presto fatto esperto di morte e di distruzione. Tu hai saputo raffigurare nel modo più alto lo strazio del tragico moderno”. L’ultimo romanzo di Tomaso Franco “Il tesoro di ruggine” rimane infisso nella memoria del lettore per quel suo concentrato di eventi orribili e traumatizzanti visti dagli occhi atterriti, innocenti e spaesati di un bambino che ormai vecchio inizia i suoi ricordi con un prologo di altissimo valore poetico: “Vado lungo un rio, verso un ponticello di sassi crollato. Le sponde sono nude, l’acqua è poca e non scorre. Guardo i campi attorno, senza siepi, abusati. C’era la canapa – sussurro – e le vigne con gli alberi pieni di nidi. Vado a cercare un piccolo luogo, sotto il ponticello, dove io e la Elsa avevamo sepolto il tesoro quando la guerra stava per finire. Sotto un poco di terra, sotto una pietra, lo ritrovo subito. Ridotto a una fragile striscia di materia ruggine. Era una scatola di metallo, da sigari, dello zio Leo. Aperta quella avrei trovato un’altra scatola, da sigarette, del marchese Asinelli. Dentro avevamo messo una piuma d’aquila, un bottone del tenente Bonazzoni, un ciuffetto di capelli di bambola e un biglietto scritto da me e dalla Elsa: “Questo è il tesoro del nostro dolore”. Se mi alzo e mi volto, vedo lontano la quercia enorme, dietro la villa nascosta del suo bosco. Là a fianco, nella cittadella dei contadini, abitava la Elsa. Ho vissuto in America sessant’anni, sessant’anni che posso definire con pochi e rapidi pensieri. Qui invece,ora, mentre esploro questi luoghi, noto quale varietà e valore ebbe la mia strana infanzia, fatta di una fitta esuberanza di eventi disparati, che non saprò tralasciare. Sento che si moltiplicheranno da ogni piccola casa che toccai, da ogni breve spazio che percorsi, e così concitata avanzerà la mia storia verso lo “zio Leo del carro armato”.
Naturalmente la parte più bella del libro è quella dell’infanzia serena, luminosa e spensierata di Tato nella villa di campagna della nonna prima dell’esperienza tragica della guerra: “I mesi là in campagna non erano mesi, erano la vita completa, senza confini né durata, una meraviglia in movimento. Non posso dire quanti anni avessi allora. Tutto era intenso e rapido, un perenne fluire sotto il grande cielo, e un anno era unito all’altro come un tempo solo. C’erano due incisioni, nel tempo, i miei due pianti. Quello dell’arrivo e quello della partenza, ma poi felicità e dolore entravano nello stesso fluido”.
Lì in campagna Tato si apre alla vita, doviziosa, ricca, felice, opima e fastosa della villa della nonna vista da lontano dal mondo silenzioso e operoso della fatica dei contadini, una villa visitata da nobili, marchesi e cardinali, sì perché il papà di Tato un capo-fascista rude, manesco e minaccioso, era cameriere segreto del papa e ben tre cardinali vennero a soggiornare nella villa. “La nonna sorrideva e parlava col marchese Asinelli. Quel signore non aveva niente a che fare con la nostra famiglia, veniva da lontano ed era sempre alla villa. Sapevo però che aveva cambiato molte residenze e città. Era distinto, anziano, ma liscio, senza baffi, sempre vestito di bianco, faceva molti gesti mentre parlava e spesso interrompeva il discorso con la nonna per rivolgersi a me. Allora allargava le braccia piegandosi in avanti e spalancava gli occhi celesti”.
Fra i personaggi troneggia lo zio Leo: “Il mondo della villa e il mondo dei contadini erano divisi da un alto muro con un solo portone di legno, sempre chiuso, che stava tra la facciata del garage e la facciata delle scuderie. Il portone si apriva esclusivamente per lo zio Leo che passava a cavallo avanti e indietro, enorme. Si soffermava nell’androne acciottolato, una specie di galleria dove godeva a sentire lo scalpitare del cavallo e si accendeva un sigaro. Poi andava di là o tornava di qua. Non mi chiesi mai cosa andasse a fare di là e di là, per me, lui non esisteva… Lo zio Leo faceva parte degli incantamenti della villa”. Personaggio magico è visto dagli occhi estasiati e incantati del bambino come un principe o un eroe delle favole che con il suo cavallo bianco partiva per terre sconosciute: “Le partenze a cavallo dello zio Leo erano eccitanti. Lasciava la villa al passo. Non prendeva per lo stradone ma per i campi, per certe stradine erbose, come se dovesse andare a vedere un albero. Invece sapevamo che andava lontano, verso tenute che avevano affascinanti nomi: i Ronchi, la Fiorita, le Lagune, le Torrette. Io, che ero sentimentale e amavo correre, l’inseguivo a lungo, specie quando si avviava verso i colli. Quella terra mi piaceva perché si alzava a poco a poco e i campi si facevano tondeggianti e irregolari, i filari di olmi e di uva diventavano grosse siepi e i fossi erano più profondi. I viaggi dello zio Leo davano un poco di vertigine alla mia fantasia, perché allungavano il parco della villa fino a quelle tenute sconosciute, ma soprattutto penetravano nel mondo dei contadini, nei loro grandi odori di fieni, di terra rovesciata, e di confusi lezzi delle bestie”.
Su questo paradiso senza nubi, di sole, di chimere, di spensieratezza e di sogni si abbattono la guerra e le sue tragedie. La villa diverrà prima un enorme accampamento e poi un deserto. Tutti se ne andranno e moriranno travolti da una tragedia immane e senza limiti. Lo zio Leo partirà per la Russia e si sperderà su quei deserti di nebbie e di neve. I genitori di Tato saranno catturati e massacrati. Il bambino e la Elsa (altro simbolo della giovinezza arrisa dall’amore e dalla felicità fugace) vagheranno atterriti in cerca della nonna e di un rifugio: “Non ricordo se andavamo in giro per la città, né i nostri movimenti in camera, o come dormivamo, se parlavamo del nostro tesoro sepolto, del nostro destino di essere rimasti entrambi senza padre e senza madre. Se l’amavo… In mezzo a tanta morte io vedevo i suoi occhi, in cui colgo e convoglio tutto un accordo, una strana armonia che non poteva essere felicità. La Elsa era anche un nome, la foglia che all’ultimo momento si posava sulle mie mani , mentre le altre volavano via… Chissà com’ero vestito, com’erano diventati i miei occhi, se già in quel momento portavano una memoria della mia infanzia che si era spenta”.
Gianni Giolo
T. FRANCO. Il tesoro di ruggine”, I libri dello Zelig, euro 12,00
“SEMPLICEMENTE”
“Semplicemente” – ha scritto il critico Giorgio Luzi – è il libro più bello e più maturo di Tomaso Franco, un grande poeta, certamente uno dei più grandi del nostro paese, che ogni tanto fa capolino con uno di quei preziosi e non appariscenti libriccini, parchi e solitari, che rivelano un mondo ermetico di luce eccentrica e straniante – come ha scritto Roberto Carifi- sulla realtà quotidiana, in un costante rovesciamento delle misure consuete che registra una sorta di stonatura al tempo stesso reale e metafisica, un’atmosfera magica di malinconia e di struggimento, in cui le parole, che sono sempre altrove, come trasportate dal vento, si posano sul limitare della vita e nuovamente scompaiono in un rimpianto segreto che sa che non esiste nessuna creazione, nessuna forma d’arte separata dalla caducità del mondo. Questo poeta, così affascinato dalla realtà e dalle sue frontiere in perenne viaggio alla ricerca di se stesso, è afferrato ogni tanto da un desiderio di bianco, di deserto, di vuoto, di una cella spoglia, di un segno meno apposto alle cose, di silenzio, come nella lirica: “Senza parola, solo ascolto / di foglie d’autunno, solo vedere / seduto sulla panchina un lettore”, oppure: “Grandi spazi e segreti ambienti / t’accolgono fino alla distesa / del mare. La tristezza scende / al lento calare dell’ombra, / serra gli spazi con quanto / ti venne dato e il pensiero opaco / ti conduce alla piccola cucina / di montagna col camino, il fumo, / i tegami accatastati, il tagliere, / i coperchi appesi”. C’è sempre nella poesia di Franco un posto nascosto, una “piccola cucina di montagna”, su cui salire e contemplare la propria storia e la propria desolazione interiore, una scrittura notturna dove far parlare i fantasmi della notte, il male, i deliri, la follia e la devastazione: “vorrei conoscere in me / - fuori c’è il sole, i fiori, / l’aria mite, gli uccelli innamorati - / il risveglio del depresso, del pazzo, / del graffiante psicopatico / il tempo bastante per capire / una delle cose dell’uomo / di cui si parla con terrore”. Qui il poeta affonda in quella scrittura tentacolare, nutrita di follia e di insensatezza, scende negli inferi della propria anima e li attraversa, senza velarli o censurarli, senza abbellirli, sapendo bene che il compito della poesia è quello di guardare in faccia la Medusa, dalla testa attorcigliata di serpenti: “Il nero vento del nubifragio / nasce dal silenzio”. Una scrittura dove c’è tutto, la tenerezza e la crudeltà, la memoria e la lacerazione, lo struggimento e il sacrificio, il tremore e la consunzione: “E’ ben profondo il problema / che tenti di svolgere / più avanzi sul disfacimento / inevitabile, perché esisti. / E la coscienza. Ridi e piangi. / Devi nutrirti e crei e aiuti. / O devi fuggire, o uccidere. / Essere umano, perché sei esistito? / Microchimica dell’universo: “Più si avvicina più la morte / deve”. Su questi inferi, su queste memorie del sottosuolo, fatte di verità sconvolgenti e di tenebre lacerate da bagliori improvvisi, si staglia l’egida della morte che “deve”, e che è, come diceva Orazio, “enaviganda”, e sulla quale è inutile “piangere o ridere”, “fuggire o uccidere”. La scrittura di Franco va al di là di ciò che consente la “coscienza”, non si permette alcun giudizio e tanto meno alcun appello morale: può soltanto testimoniare un’epifania dell’esistenza, senza preoccuparsi che sia un’emanazione del bene o del male. “Mi assale talvolta / quella seconda parte, più della metà, / della vita di Hölderlin, / “la discesa nella notte della demenza”, / la fine del fulgore poetico. / Poi il buio”.
Gianni Giolo
T. FRANCO, Semplicemente, Il Bisonte, euro 9,00
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