Gianni Giolo
Home > Scheda bibliografica  > Recensioni > CLAUDIO POVOLO

CLAUDIO POVOLO

LA SELVA INCANTATA

Da Quargnenta la sera stessa del 19 novembre otto uomini che avevano partecipato alla sua cattura scortarono il malcapitato fino alle carceri di Valdagno e il mattino dopo si presentarono al commissariato distrettuale di Valdagno per consegnare gli oggetti che gli avevano trovato addosso. Il commissario distrettuale procedette ad una dettagliata descrizione dell’individuo che i “pattuglianti” di Quargnenta gli avevano consegnato. Subito dopo seguì l’interrogatorio. E con sorpresa apprese che aveva davanti a sé il “famigerato” Antonio Caldana da Conco. E scrivendo il giorno stesso alla pretura distrettuale di Valdagno annotò gli oggetti attenenti al furto e il misterioso libretto. Durante l’interrogatorio il Caldana mostrò un atteggiamento freddo quasi distaccato. Un monologo interrotto solo dalle domande del cancelliere. Si era definito un contrabbandiere di tabacco che acquistava nella Valle di Brenta e con il quale provvedeva al suo sostentamento e aveva ricordato con esattezza tutti i suoi precedenti penali. Viaggi da contrabbandiere i suoi, intrapresi lungo i versanti collinari che tagliano la pianura. Viaggi solitari, interrotti da brevi soste in fienili e stalle ove riposare. Sempre con quella saccoccia e quei suoi libri (fra i quali, oltre al famoso libretto, un altro intitolato “Purgatorio”, un altro “Via crucis” e un altro “Modo pratico onde confessarsi”). L’interrogatorio condotto nella pretura di Valdagno durò più di quattro ore. Ma fu uno dei tanti cui sarebbe stato sottoposto nei mesi seguenti. Con questo interrogatorio inizia l’avventura processuale di Antonio Caldana. Il contrabbandiere fu poi interrogato dal giudice Bernardo Marchesini, uno dei giudici più severi e intransigenti del tribunale di Vicenza, al quale, in qualità di relatore, era stata affidata l’istruzione del processo relativo ai furti avvenuti tra la primavera e l’estate 1835 in numerose chiese parrocchiali di villaggi del vicentino. Il giudice concluse il suo “referto di finale inquisizione” nei confronti dei delitti imputati (fra i quali un torbido caso di omicidio) al Caneva due anni dopo. Molte accuse ma poche certezze. L’unica cosa certa erano i furti nelle chiese (circa una quindicina). L’uomo era stato fuggevolmente visto nei luoghi in cui poi, nel corso della notte, erano stati compiuti i furti. Il giudice aveva più volte interrogato l’imputato ma le sue risposte puntuali e tali da evitare qualsiasi implicazione penale non avevano palesato contraddizioni di sorta. Solamente quell’arresto fortuito e fortunato compiuto dai contadini di Quargnenta gli aveva permesso di costruire un impianto accusatorio degno di tale nome. Ladro sì il Caldana ma non “crudel sanguinario” come l’imputazione di omicidio lasciava indurre. Un giudice onesto e perspicace il Marchesini che sapeva  con acutezza e introspezione psicologica vagliare le testimonianze autentiche da quelle indotte o risultanti tali. Astuto e sagace pure il Caldana il quale però si era lasciato incastrare perché aveva sottovalutato l’intelligenza dei contadini, ai quali aveva svuotato la chiesa dei suoi arredi più preziosi,  che lo avevano riconosciuto e arrestato. I contadini che lo avevano arrestato, appartenenti ai settori più tradizionali e compatti della società dell’epoca, posero fine ad una carriera criminale che già stava delineando il mito del brigante imprendibile. Bernardo Marchesini non aveva mostrato esitazione a proporre nei confronti del giovane imputato la severa pena di dieci anni di carcere duro, che poi la corte d’appello ridusse a quattro. “A fermare il Caldana – conclude Povolo – fu proprio quella società più tradizionale in cui egli aveva esibito, con orgoglio e forse anche con un po’ d’irrisione, quel suo libricino “La selva incantata”.

                                                LA CONFESSIONE

Altro episodio molto interessante sia dal punto di vista umano che sociologico, è quello di Giacomo Mantese, 70 anni, di Rovegliano, distretto di Valdagno, che denuncia nel 1850 il furto di 2700 lire venete in monete d’oro. Il suo tesoretto lo aveva nascosto nella cantina sottoposta alla sua abitazione. Caduto ammalato dopo qualche mese di giacenza, non aveva più trovato la somma della cui esistenza non sapevano nulla nemmeno i suoi più intimi familiari. L’unico cui aveva confidato dell’esistenza della somma di denaro era il nipote Francesco della cui onestà non  aveva alcun dubbio, il quale però dice di non aver saputo nulla. Il sacerdote don Pellegrino Caneva  interrogato dal giudice disse che aveva ricevuto la confessione di un suo penitente che aveva rubato la somma di denaro e che si era impegnato a restituirlo. Di ciò il sacerdote aveva avvertito il Mantese, non rivelando il nome del penitente, ma il derubato dichiarò di non aver ricevuto nulla. Dopo 15 giorni il Caneva si presentava in pretura dicendo di aver ricevuto dal sacerdote 252 lire venete in acconto della somma rubata. Protestando l’interessato che l’acconto era minimo il sacerdote lo aveva rassicurato che presto sarebbe stato risarcito dell’intero ammontare della somma. Ma con il passare del tempo il Mantese  non aveva ricevuto più nulla. Dopo molto tempo il derubato dichiarava di aver ricevuto dal Caneva un altro acconto minimo di lire venete 168, ricevendo l’assicurazione che un po’ alla volta sarebbe stato per intero indennizzato. Il sospetto cadeva sul sacerdote, cappellano della villa, che era uno dei più ricchi benestanti del paese. Ma non c’era nessuna prova a suo carico. Alla fine tutta la colpa ricadeva sul  Mantese che  aveva depositato la somma di denaro nella cantina prospiciente la strada che rimaneva spesso durante il giorno aperta e in modo tale che qualche estraneo avrebbe potuto facilmente entrare inosservato e perpetrare il furto. La sentenza si concludeva così: “Conchiuso ad unanimia nel merito della deliberazione e per maiora contra votum, ommesso qualunque cenno sul conto del sacerdote don Pellegrino Caneva, non avendo trovato li votanti consiglieri Marchesini, Fanzago e Bosio argomento per emettere alcuna deliberazione ai di lui riguardi, perché infondata del tutto ed in ogni caso sempre offendente il decoro di un onesto prelato”.

 

                                                                                                Gianni Giolo

C. POVOLO. La selva incantata, Cierre edizioni, euro 18,00

 

 

Gianni Giolo