SILVIO LANARO
LA STORIA? NON ESISTE.
Che cos’è la storia? Si può arrivare a una conoscenza esatta, oggettiva e scientifica della storia come pensavano i positivisti dell’800? No, non è possibile. A sostenere questa tesi è lo storico vicentino docente di storia contemporanea all’università di Padova nel suo libro “Raccontare la storia”. Che differenza c’è fra uno storico e un dilettante? E’ più storico lo studioso della storia che passa sui manuali o il letterato che si reca su un posto e scopre una realtà del tutto opposta da quella presentata come ufficiale e indiscutibile? Che rapporto esiste fra storia e fiction? C’è un uso storiografico della fiction come esiste un uso letterario dei documenti? Come è possibile che le res fictae diventino res factae? “Che cosa distingue la figura dello storico? – si chiede Lanaro – Chi può legittimamente fregiarsi di questo titolo? Quali sono i requisiti che deve possedere? Come funzionano le sue approssimazioni ecdotiche? Fino a dove si estendono i territori di sua competenza? E soprattutto – poiché fra coloro che esercitano questa attività dalle frontiere mobili esistono più dilettanti che fra i pittori, i letterati o i musicisti – una pretesa scienza è solo sapiente artigianato o banale bricolage?”. Oggi tutti si danno la patente di storici e si sentono abilitati a scrivere o a riscrivere la storia. Tutti soprattutto i politici. Come Wiston Churchill che nel 1948 mise alla frusta uno staff di collaboratori perché scrivesse in fretta - a nome suo - una storia della seconda guerra mondiale. Ne nacque non una storia ma – dice Lanaro – “un artificio di modulistica normativa che annovera pochi paragoni nell’età contemporanea e che rappresentò per decenni una vulgata di cui non si poteva dubitare”. Una storia che sorvolava su questioni di grande importanza come le micidiali percussioni aeree inglesi su Dresda e su altre città tedesche. Ci volle un drammaturgo come Rolf Hochhuth per tirar fuori tutta la questione nella sua pièce “Soldati. Necrologio per Ginevra”. Si fa presto a far presentare come storia una vicenda puramente inventata. Lo ha fatto la scrittrice còrsa Marie Ferranti nel suo libro “La princesse de Mantoue” che con asciuttezza cronistica e dovizia di chiose narra la vita di Barbara di Brandeburgo, moglie di Luigi Gonzaga che insieme al marito commissionò ad Andrea Mantenga la famosa “Camera degli sposi”. Il volume sembra un perfetto saggio storiografico: puntuale riferimento a lettere e a stampe d’epoca, nessun dialogo, tutto riscontro documentario. La storia va avanti con il piglio e la precisione del fatto più naturale e autentico, salvo poi alla fine leggere in una postilla di piè di pagina che tutto - dalla storia ai personaggi - è falso. “Bene. – conclude Lanaro – Molto divertente. Virtuosismo di alta scuola. Ma se Ferranti avesse insistito con lo scherzo tralasciando la postilla? Sarebbe stato necessario recarsi a Mantova per frugare e rovistare, cosa che un uomo del mestiere avrebbe potuto fare ma un lettore fiducioso sicuramente no”. Un altro genere che mette in crisi le verità della storiografia ufficiale sono i nostoi. Pierre Pachet, un letterato decide di visitare la città rumena di Iaşi, nella Moldavia nord-occidentale, dove erano vissuti i suoi avi e scrive il libro di enorme successo “Conversazioni a Iaşi” . Nessuna nostalgia della terra natale perché è un ebreo francese fino al midollo. La storiografia pubblica dice che in Romania, dopo la cacciata di Nocolae Ceauceşcu, si è instaurata la democrazia. Pachet invece scopre una realtà ben diversa: a Iaşi si imbatte in uomini e paesaggi già conosciuti: giovinastri oziosi e impudenti, capitalisti avidi, ignoranti e disonesti, agenti della Securitate passati al servizio del nuovo regime, crepe di calcestruzzo gibboso e scadente, cartelloni pubblicitari della Coca-Cola a ogni piè sospinto, quartieri sorti come fungaie da un processo di urbanizzazione incredibilmente anarchico. Si rende conto che sul futuro della giovane democrazia rumena c’è poco da sperare, che i rapporti instaurati tra gli individui e le istituzioni dello Stato hanno destrutturato la società civile e reso impossibile un moderno tessuto di relazioni interpersonali, che la rivolta del 1989 è stata la più fasulla di tutte le rivoluzioni, che a instaurare la caccia all’ebreo non furono i comunisti o i nazisti ma la popolazione locale che ha sempre visto gli yiddish come un corpo irrimediabilmente estraneo. Pachet torna a Parigi terribilmente deluso e teme che la Romania sia un paese irrecuperabile e ogni minima forma di democrazia. La persecuzione contro l’ebreo continua nella Romania postcomunista per Norman Manea, ebreo della Bucovina che scrive “Ritorno dell’huligano” e denuncia senza mezze misure la continuità degli atteggiamenti e dei costumi intellettuali prima e dopo il comunismo. I comunisti lo definiscono “traditore”, “nano di Gerusalemme”, “mezzo uomo” e chiedono “l’eliminazione dell’insetto”. Manea ha commesso un delitto: ha avuto il coraggio di denunciare il passato ultrareazionario del mito ungherese Mircea Eliade che si è legato a Corneliu Codrenau, la creatura più sozza del fascismo europeo. Non conta che l’ebreo abbia detto la verità e si sia basato su documenti irrefutabili. Nemmeno André Loran, che ha scritto “Perroquet de Budapest”, ebreo di origine ungherese, ritorna volentieri in Ungheria, Suo padre ricchissimo è stato spogliato dei suoi beni e costretto a girare con la stella gialla cucita nel petto. Nel 1956 la condizione agiata dello scrittore lo fa bollare come “nemico della classe operaia” ed è espulso. Nel 1997 ritorna in Ungheria. Gli si para dinanzi un paese povero, eternamente finto, inventato per ragioni dinastiche o ideologiche: finto il regno di Ungheria, finta la grottesca reggenza dell’ammiraglio Horthy, finta l’intenzione angloamericana di restaurare la monarchia, finto il consumismo d’importazione, finto l’anonimato servile della prima era post-sovietica. Nulla di simile alla regione incantata di Erno Szép, di Bela Zsolt, di Györy Somlyo e degli altri scrittori antologizzati nel 2003 dalla Nebraska University Press. Questi nostoi – osserva Lanaro – diventano “fonte primarie quando contengono la riproduzione di carte in possesso del loro autore o si possono incrociare confrontando due, tre, quattro versioni di un medesimo evento”. Storia e memoria sono due realtà irriducibilmente antitetiche e, come dice Josif Brodskij, “la storia di una nazione, come la storia degli individui, consiste più in ciò che si è dimenticato che in ciò che si ricorda. La storia è un processo non tanto di acquisizione, quanto di perdita. Altrimenti non avremmo bisogno degli storici”.
Gianni Giolo
S. LANARO, Raccontare la storia, Marsilio, euro 13,00
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