Gianni Giolo
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GOFFREDO PARISE

LONTANO”

SILVIO PERRELLA PUBBLICA GLI ARTICOLI SCRITTI PER IL  CORRIERE DELLA SERA FRA IL 1982-1983

 

“Caro Edo”, così incomincia l’introduzione di Silvio Perrella a “Lontano”, il titolo che coglie lo spirito degli articoli di Goffredo Parise, apparsi tra il 1982 e il 1983,  sul Corriere della Sera, all’indomani dei Sillabari. Una lettera aperta a uno scrittore solitario “abituato a considerarsi una persona sola”. Una impressione che non era sfuggita a Natalia Ginzburg che, avendo visto lo scrittore vagolare tutto solo per le vie di Roma, aveva osservato che “la solitudine gli era come stampata addosso”. Uno scrittore solo e per lo più nichilista, dotato di quell’esacerbato nichilismo che aveva espresso ne “L’odore del sangue”, il più lontano dallo spirito dell’autore del “Ragazzo morto e le comete”, intriso di un realismo perverso, raziocinante, analitico, nero, atrobiliare, un romanzo che non avrebbe dovuto essere pubblicato, come abbiamo sostenuto anche in articolo del Giornale di Vicenza del giugno del 1998. “Da ragazzo – scrive Perrella – ti era riuscito di parlare coi morti, eri attratto dai cimiteri, ti sembrava che chi moriva lo facesse con lentezza. Per morire davvero dovevano dissolversi tutti i pensieri e le sensazioni e i ricordi della vita che si era vissuta di qua. Per un po’, tra il qua e l’al di là, c’era la possibilità di comunicare. Deve esserti rimasta questa convinzione. Forse per evitare questi passaggi lenti, tu che sei stato veloce, hai scelto di farti cremare. Nella combustione sono bruciati all’istante tutti i tuoi pensieri, e anche i libri che avresti potuto scrivere. Ti sei liberato di te stesso. E inoltre sei stato conseguente con il tuo nichilismo di fondo.  Forse ti stupirai se ti definisco un nichilista felice. Quando scrivevi i pezzi di “Lontano” lo eri al massimo grado. Ogni frammento di realtà o di immaginazione che rinvenivi con naturalezza sotto i tasti della tua macchina da scrivere, riuscivi a fissarlo in un fiat e poi lo lasciavi andare. Trovare e perdere erano per te la stessa cosa, andavano di pari passo. Non sapevi trovare nulla che non dovesse essere perduto all’istante. Amavi scrivere con rapidità, come lo Stendhal dei “Ricordi di egotismo” o come l’Hemingway di “Festa mobile”. Tutto te stesso doveva improvvisamente cadere sulla pagina e dare vita a un racconto, a un reportage o semplicemente a un articolo. Un attimo dopo l’esecuzione materiale del testo, ti dimenticavi di tutto e tornavi a vivere. Scrivevi in fretta per non sottrarre tempo alla vita. E la vita potevano essere i viaggi avventurosi, guerreschi e politici o poteva essere la casetta sul greto del Piave o ancora la noia di una giornata venuta male, e soprattutto una bella sciata. Nulla di programmatico e di maiuscolo, ma semplicemente l’infinito lavoro di capire. Capire partendo da se stessi, verificando fin dentro le proprie fibre più intime i pensieri e i gesti, quelli propri e quelli altrui e del mondo. Eri un individualista, ma un individualista non egoistico. Il mondo ti stava a cuore, eccome, ma come una galassia di fenomeni unici, tutti diversi gli uni dagli altri e sempre in movimento. Non appena subdoravi accozzaglie costruite a forza, ti ritraevi e, se potevi, fuggivi. Non amavi la politica, e a volte fosti anche scambiato – errore grave – per un reazionario. Da un certo momento in poi, soprattutto dopo il ’68, avevi intuito che non era la letteratura in generale a dover essere cambiata, ma la tua vita in particolare, di conseguenza sarebbe cambiato anche il tuo modo di scrivere. Riabilitasti i sentimenti e facesti un uso continuo e critico dei sensi. Fu allora che nacquero “I Sillabari”. Come avvenne quella nascita reiterata non l’hai mai raccontato davvero. Natalia Ginzburg disse che ti eri trovato all’improvviso in armonia con l’imperfetto. Intendeva dire con il tempo verbale dell’imperfetto, ma forse alludeva anche alla possibilità chi ti fosse riuscito di abbandonarti pienamente all’imperfezione della vita. Ti sentivi un fuorirazza. Eri nato illegittimo. Tuo padre l’avevi conosciuto da adulto: era un medico militare di stanza a Vicenza. Aveva passato una notte con quella che sarebbe stata tua madre e quando in seguito aveva saputo che cominciavi ad esserci tu di mezzo, si era dileguato. Tua madre, a sua volta, era una figlia adottiva, i tuoi nonni, quelli che ti accolsero in casa, avevano accolto lei prima di te. Ci fu poi il patrigno, che ti diede il cognome, ma non subito. Era un giornalista alto e segaligno, con i baffetti, che la sera ti leggeva Salgari. E’ vero che quando incontrasti il tuo vero padre, gli chiedesti di quali malattie soffrisse? Volevi sapere quanti mali, che non si erano ancora rivelati, il suo antico serpentello guizzante ti avrebbe potuto trasmettere”. Ecco uno stralcio del colloquio di Perrella con Parise che, in questa raccolta di racconti brevi e piccoli reportages, rivela accensioni e balenii improvvisi, ricordi importanti, o particolari strani o apparentemente insignificanti, ma tutti depositati nel fondo della sua esperienza di uomo e di artista. Come l’incontro con una fragile Marylin Monroe, paragonata a una libellula, o con Fidel Castro, visitato a Cuba, descritto come un fratone barocco, un misto di Fellini e Mussolini, oppure nella Vicenza della guerra con due prostitute di Via Soccorso Soccorsetto, nelle “strade immerse nell’oscurità e nell’oscuramento, in una luce giallastra dalle graffiature sull’inchiostro blu delle finestrine di un bar”, oppure con Franco,  il compagno di scuola figlio del direttore del quotidiano locale “Vedetta fascista” (il nome del Giornale di Vicenza in epoca fascista), “un elegantissimo uomo che molte cravatte, camicie di pura seta e pomi d’avorio aveva marconizzato da Ugo Ometti e che era andato a dirigere “Il Piccolo” a Trieste e là in quelle bore si consunse di tisi in poco tempo”. Franco, - annota lo scrittore -  dopo brevissime tergiversazioni dovute alla dignità caduta, fu immesso come metalmeccanico in una fonderia e vi rimase fino alla pensione. Rimase sempre mio amico, anche se la sua stravaganza che superava ogni limite è presto detta. Non fu mai iscritto al partito d’obbligo dei lavoratori dell’acciaio, mai solidarizzò con essi pure eseguendo il loro stesso lavoro ma non assunse le caratteristiche esterne. Perse cioè la sua condizione sociale (del resto l’aveva persa, d’un solo colpo, l’intera famiglia) e assunse quella che egli riteneva consona, dell’operaio metalmeccanico ma totalmente privo di invidia per non parlare di odio di classe. Non ebbe fidanzate, né donne né uomini  e non si sposò mai. Franco – continua Parise -  “non ha rapporti, non persegue ambizioni, non arrufola in politica memore delle brevi tristi glorie del padre. Sopravvive, con strane retoriche e appunto umoristiche passioni. Per la montagna, per esempio, dove, per risparmiare, si intana in malghe irraggiungibili durante l’estate, solo e provvisto soltanto dell’acqua da bere”. Un ritratto di un tipico vicentino, anzi della vicentinità che per lo scrittore è “la facoltà di tradurre in passioni intellettuali, astratte, le passioni reali”? Franco di notte “vagola solo nelle nebbie di una città addormentata, dove è possibile udire una sorte di lamento: “Dies irae dies illa, solvet saeculum in favilla” ed altri canti gregoriani “in mortem”, che egli imparò negli anni della morte e mai più dimenticò”.      

Gianni Giolo

G. PARISE, Lontano, Avagliano Editore, euro 10,00

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