Gianni Giolo
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MARIO RIGONI STERN

I CRITICI LO RICORDANO

La morte di Mario Rigoni Stern ha avuto un’eco vastissima su tutti i giornali, le cui prime pagine del giorno 18 erano focalizzate sulla sua figura, di soldato reduce dalla campagna di Russia e di uomo amante della natura. “Alla prima notizia della sua morte – ha scritto Fernando Bandini – il nostro pensiero è corso all’immagine della sua casa, al luogo tra le montagne della sua operosa solitudine. In quella solitudine Rigoni aveva coltivato  il tema centrale della sua ispirazione: il rapporto tra storia e natura. Il primo a parlare del “Sergente nella neve” a Vicenza era stato Gino Nogara. Fin dal suo primo apparire nel 1953, il libro   è stato salutato subito “come un importante evento da tutta la stampa nazionale”. Sagace il commento di Neri Pozza: “C’è di sicuro la mano di Vittorini”. La sua opera venne accolta, a primo acchito, non come quella di un grande scrittore ma di un “eccezionale testimone”. Lo stesso Vittorini lo definiva “scrittore non di vocazione”. Il che lasciava intendere che quello sarebbe stato il primo ma anche l’ultimo libro, nato da una eccezionale esperienza trascritta come in un diario e rievocata dalla memoria. Ma Vittorini – sottolinea Bandini – si era sbagliato: Rigoni era scrittore di vocazione. E Neri Pozza, dieci anni dopo nel 1962, gli pubblicherà “Il bosco degli urogalli”. La maggior parte dei critici scorse in questo secondo libro un nuovo tema ispirativo, una sorta di ricominciamento: paesaggi alpestri, cacciatori, animali e il succedersi astrale delle stagioni. Dalla storia si passava alla natura che nega la storia. La guerra e la pace nei suoi libri si alternano: la prima è vista come suprema alienazione dell’umano, la seconda ha i connotati della terra natale e della casa, del lavoro e della fatica, della legna raccolta nei boschi e bruciata durante i lunghi inverni, del pane e del vino per i riti della mensa e del riposo, sacramento della vita anche per i non credenti.  Secondo Bandini Rigoni è stato il più profondamente tolstoiano dei nostri scrittori del Novecento, quello che più ha assorbito il messaggio e ne ha condiviso le componenti umano-cristiane, come se Asiago fosse la sua Jasnaja Poljana e l’altipiano la regione di Tula. In lui sopravvive e  poeticamente agisce l’antitesi natura-civiltà che è stata una delle componenti fondamentali dell’opera di Tolstoi. Nel corso degli anni Rigoni si rivelò sempre più scrittore che si misurava sui grandi scrittori russi che particolarmente amava e nella “Storia di Tönle”, forse il suo libro più bello,   la vita difficile e povera del pastore  e del contrabbandiere s’incrocia con la tragedia della prima guerra mondiale che sconvolge l’Altopiano. Il libro otterrà l’anno successivo il premio Campiello e il premio Bagutta. La rievocazione di quel passato e delle guerre del secolo si prolungherà nell”Anno della vittoria” e nelle “Stagioni di Giacomo”. Col contrappunto dei racconti che hanno per tema il paesaggio natale e i suoi segreti, dove la pace raduna in contesti concordi l’uomo e la natura, lepri che l’inverno imprimono orme sulla neve, uccelli che all’alba vengono a battere  sui vetri, api e altri animali.

Bepi De Marzi, con la sua penna affilata e pungente, ma libera,   ha ricordato il suo viscerale antirevisionismo alla Gianpaolo Pansa. Fra poco – gli ha confidato – diranno che in Russia siamo andati a fare le settimane bianche e conclude il suo poetico e commovente articolo: “Libertà, libertà, libertà. Ma che beffa morire nel tempo oscuro del revisionismo, del negazionsimo, con Berlusconi imperante! Ora sto qui a piangere. E m’ingroppano ancor più i passati inverni delle nostre brevi camminate mattutine insieme a Carlo Geminiani. “La neve verrà leggera come piume d’oca, soffermandosi prima sugli alberi. Nell’armoniosa stanza d’entrata della sua casa, con la scala in fondo che porta di sopra, c’è la scultura in bronzo di Murer “Il sergente della neve”. E’ un’immagine dolorosa nella tormenta. Lì, tra le pareti di legno bruno, noi amici più cari abbiamo sempre parlato sotto voce”.

Paolo Lanaro ha messo in luce il rapporto fra la scrittura di Rigoni e la moralità, rapporto trascurato dalla letteratura del ‘900.  La moralità non garantisce di per sé la forza della scrittura, ma ne costituisce il presupposto e l’autorevolezza e davanti a tanta leggerezza e superficialità del romanzo del secondo Novecento la lezione di moralità di Rigoni è stata grande e profonda. E’ facile contrapporre la sua verità e la sua sincerità con la teoria della doppiezza e della falsità di Piovene. Per lui era motivo d’orgoglio non aver scritto tanti libri, ma aver portato in salvo settanta uomini quando, sulle rive del Don, era rimasto comandante di caposaldo.

Claudio Magris ha scritto che “Il sergente nella neve” è un libro individuale e corale, che racconta la storia di quell’uomo – di quel sergente degli alpini, della sua odissea non meno epica di quella omerica – e di tutti suoi compagni, ritornati o sepolti in quella neve e dell’Italia di quella tragedia, della vergogna che ha mandato morire tanti suoi figli e della gloria con cui essi hanno fatto fronte al loro destino, del valore con il quale hanno reso onore alla patria disonorata dal regime fascista.

Ermanno Paccagnini ha scritto che dopo il primo fortunato libro Rigoni si liberò dalla nomea di essere autore di un solo libro e la conferma venne della triplice narrativa che ne discese. Ancora con racconti di guerra, certo (“Quota Albania”, “Ritorno sul Don”), ma poi soprattutto con l’incrociarsi di titoli attinenti ora a vicende più propriamente umane, ora a ritmi e voci della natura. Vicende, le prime, dapprima sempre meno autobiografiche, in quanto più attinenti all’autobiografia della terra: e sono le tante piccole storie di uomini che gli crescono dentro, raccontate con uno stile improntato alla oralità sapienziale, che hanno dato gemme quali “Storia  di Tönle”, “L’anno della vittoria” e il tenerissimo “Le stagioni di Giacomo” e i racconti di “Amore e confine”. Racconti che ridonano un mondo di silenzi, di colloqui fatti di sguardi, di accenti delicati, di filò che sembrano talora sciogliersi anzitempo quasi per risparmiare sul lume. Un universo ricco di visionarietà e favole vissute come realtà.

Cesare De Michelis ha ricordato che nel 1998 l’università di Padova gli conferì la laurea honoris causa in Scienze forestali e ambientali. Sarebbe stata più adatta un laurea di Lettere, ma questa premiava i contenuti di un’opera, che, senza alcuna rinuncia alla dignità della letteratura e neppure alle altezze sublimi della poesia, parlava di un piccolo mondo, esplorato con attenzione e pazienza, palmo a palmo, e poi restituito nella sua cangiante esistenza alla definizione di una scrittura che, proprio per non tradire la realtà dell’esperienza, andava ben oltre, negli spazi incommensurabili dell’eterna sapienza, nella vivida astrattezza dell’etica.

Lorenzo Scandroglio ricorda che il suo Altopiano, che era il luogo dove andava a leccasi le ferite adolescenziali, come faceva il giovane Ernst Heminway nei campi indiani al confine del Canada, sarebbe rimasto l’emblema di un senso di appartenenza alla propria terra coniugato con l’idea di cosmo più che di cosmopolitismo: con la natura al di sopra di tutto. La natura di Mario Rigoni non è mai stata una natura arcadica e armoniosa da paesaggista, e il suo amore per la caccia, commisurato a quello infinito per gli animali, lo testimonia.

Alberto Sinigaglia ricorda che nel suo Altipiano avevano trovato rifugio Giulio Einaudi e Primo Levi. La sua casa era un viavai di professori e studenti, di editori e di traduttori in molte lingue. Gli ultimi, Hiroto Koga e la moglie Keiko, che avevano tradotto “il bosco degli urogalli” e “Arboreto salvatico” in giapponese. La sua è stata una vecchiaia felice e “operosa” come ha ricordato Bandini. Dopo la sua trasmissione a “Che tempo fa” di Fabio Fazio riceveva molte lettere ogni giorno. Un pomeriggio, mentre rispondeva ai suoi lettori, sentì la mano destra non ubbidirgli più. Passò poco tempo e pure le solide gambe lo tradirono. Addio lavori nell’orto, addio camminate sui sentieri. Il sergente capì, e lo disse, che questa volta davvero stavano per metterlo in congedo.

 

Gianni Giolo

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