Gianni Giolo
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CHE COS’E’ LA POESIA?

 

Che cos’è la poesia? Chi è il poeta? Poeta non è chi scrive poesie, ma chi ha un’intenzionalità diversa da ogni altra e sa trovare proprio quella parola che, dantescamente, indica la strada quando essa sembra smarrita. Un poeta è poeta quando sa varcare i muri e trasformare quei muri sui quali spuntano pungenti i “cocci aguzzi di bottiglia” di Montale nei “muri della terra” di Caproni, quando sa mutare, come dice Zanzotto, l’oltraggio in “beltà”. In un mondo come il nostro senza valori, in un mondo dissacrato e senza speranza, in cui la poesia si limita a cantare la solitudine, la rinuncia, la desolazione, la delusione, l’angoscia, la disperazione e il “male di vivere”: “non domandarci – canta Montale – la formula che mondi possa aprirti”, ma la poesia può solo offrire “qualche storta sillaba e secca come un ramo”. Oggi la poesia è consapevolezza della negatività, del non essere, del mancato realizzarsi dell’uomo.

Ben diversa invece la poesia nell’Ottocento che cantava, come nel Foscolo, i grandi miti dell’età classica, la gloria (il kleos omerico), l’onore, la patria, la storia, la bellezza,

l’aura beltade  ond’ebbero

ristoro  unico a’ mali 

le nate a vaneggiar  menti mortali.

Nelle Grazie il poeta innalza un monumento alla bellezza.  Leggiamo l’epilogo del terzo Inno, il carme d’addio alla bellezza e la promessa del poeta di rinnovare il rito, ogni anno, al ritorno della primavera:

Addio, Grazie: son vostri e non verranno

Soli quest’inni a voi, né il vago rito

Oblieremo di Firenze ai poggi

Quando ritorni April. L’arpa dorata

Di novello concento adorneranno,

Disegneran più amabili carole

E più beato manderanno il carme.

Le tre avvenenti ancelle vostre all’ara:

E il fonte, e la frondosa ara e i cipressi,

E i serti e i favi vi fien sacri, e i cigni

Votivi, e allegri i giovanili canti

E i sospiri delle Ninfe. Intanto, o belle,

O dell’arcano vergini custodi

Celesti, un voto del mio cuore udite.

Date candidi gigli a lei che sola,

Da che più lieti mi fioriano gli anni

M’arse divina d’immortale amore.

Il poeta ormai vecchio ricorda l’immortale amore della giovinezza, fiorito quando giovane trentenne saliva la cattedra universitaria di Pavia e trascorreva i giorni felici fra gli studi e il plauso dei dotti, confortato dall’immortale amore.

Anche il Manzoni nell’Adelchi canta l’amore immortale di Ermengarda, moglie ripudiata, per Carlo. Lei muore perché non riusciva a dimenticare , a soffocare il suo amore e gli irrevocati giorni della felicità, giorni irrevocati perché non richiamati volontariamente alla memoria:

Sgombra, o gentil, dall’ansia

Mente i terrestri ardori;

Leva all’Eterno un candido

Pensier d’offerta e muori:

Fuor della vita è il termine

Del lungo tuo martir.

 

Tal della mesta,  immobile

Era quaggiuso il fato:

Sempre un obblio di chiedere

Che le saria negato;

E al Dio de’ santi ascendere,

Santa del suo patir.

 

Ahi! nelle insonni tenebre,

Pei claustri solitari,

Tra il canto delle vergini,

Ai supplicati altari,

Sempre ai pensier tornavano

Gl’ irrevocati dì;

 

Quando ancor cara, improvvida

D’un avvenir malfido,

Ebbra spirò le vivide

Aure del Franco lido

E tra le nuore Saliche

Invidiata uscì…

Così il Leopardi canta i miti, le illusioni, i sogni, le speranze deluse, gli ameni inganni  della sua giovinezza:

O speranze, speranze: ameni inganni

Della mia prima età! Sempre,  parlando,

Ritorno a voi;

Anche  se le speranze sono morte il poeta le richiama e parla con loro, come farebbe una madre che parla con il figlio morto:

che per andar di tempo,

Per variar d’affetti e di pensieri,

Obliarvi non so. Fantasmi, intendo,

Son la gloria e l’onor; diletti e beni

Mero desio; non ha la vita un frutto,

Inutile miseria. E sebben vòti

Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro

Il mio stato mortal, poco mi toglie

La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta

A voi ripenso, o miei speranze antiche,

Ed a quel caro immaginar  mio primo;

Indi riguardo il viver mio sì vile,

E sì dolente, e che la morte è quello

Che di cotanta speme oggi m’avanza;

Sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto

Consolarmi non so del mio destino.

E quando pur questa invocata  morte

Sarammi allato, e sarà giunto il fine

Della sventura mia; quando la terra

Mi fia straniera valle e al mio sguardo

Fuggirà l’avvenir; di voi per certo

Risovverrammi; e quell’imago ancora

Sospirar mi farà, farammi acerbo

L’esser vissuto indarno, e la dolcezza

Del dì fatal tempererà d’affanno.

Il Carducci invece canta gli ideali della rinascita sociale del popolo italiano, l’elevazione delle classi umili, fatte libere e forti nella giustizia e nel lavoro e questo suo sogno si veste di forme luminose, quasi di una divinità gentile:

Salute, o genti umane affaticate!

Tutto trapassa e nulla può morir.

Ciò che non può morire non è l’uomo, ma la natura che non verrà mai meno e genera perpetuamente se stessa:

Noi troppo odiammo e sofferimmo. Amate.

Il mondo è bello e santo l’avvenir.

Che è che splende su da’ monti, e in faccia

Al sole appar come novella aurora?

Di questi monti per la rosea traccia

Passeggian dunque le madonne ancora?

 

Le madonne che vide il Perugino

Scender ne’ puri occasi de l’aprile,

e le braccia, adorando, in su’l bambino

Aprir con deità così gentile?

 

Ell’è un’altra madonna, ell’è un’idea

Fulgente di giustizia e di pietà:

Io benedico chi per le cadea,

Io benedico chi per lei vivrà.

Il Pascoli invece tutto rivolto a penetrare il segreto senso delle cose e a scoprire in esse un messaggio di morte e di precario senso di fragilità e di vuoto:

Gèmmea l’aria, il sole così chiaro

Che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,

E del prunalbo l’odorino amaro

Senti nel cuore…

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante

Di nere trame segnano il sereno,

E vuoto il cielo, e cavo al piè sonante

Sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,

Odi lontano, da giardini ed orti,

Di foglie un cader fragile. E’ l’estate,

Fredda dei morti.

Nel Novecento cito solo tre poeti che si caratterizzano per una certa ambizione di tono e di canto alto e per una culta ed elaborata ricerca di compostezza formale: Vicenzo Cardarelli, Cesare Ruffato e Maria Luisa Daniele Toffanin.

Cardarelli canta le stagioni e il loro fenomenico variare di luci e colori e in particolare la stagione autunnale che, sentita nella sua malinconica dolcezza, assume il significato di emblema della vita che s’avvicina al tramonto:

Un tempo, era d’estate,

Era a quel fuoco, a quegli ardori,

Che si destava la mia fantasia.

Inclino adesso all’autunno

Dal colore che inebria,

Amo la stanca stagione

Che ha già vendemmiato.

Niente più mi somiglia,

Nulla più mi consola,

Di quest’aria che odora

Di mosto e di vino,

Di questo vecchio sole ottobrino

Che splende sulle vigne saccheggiate.

 

Sole d’autunno inatteso,

Che splendi come in un di là,

Con tenera perdizione

E vagabonda felicità,

Tu ci trovi fiaccati,

Vòlti al peggio e la morte nell’anima.

Ecco perché ci piaci,

Vago sole superstite

Che non sai dirci addio,

Tornando ogni mattina

Come un nuovo miracolo,

Tanto più bello quanto più t’inoltri

E sei lì per spirare.

E di queste incredibili giornate

Vai componendo la tua stagione

Ch’è tutta una dolcissima agonia.

Ruffato, nei suoi ultimi libri tutti protesi verso l’estrema Parca e verso il colloquio escatologico con l’al di là e con il silenzio bianco della morte, canta la caduta e il naufragio di tutti i valori nella nostra società senza fede e senza speranza:

Si dice che la neve ricopra il pane

Lasciandone fiorire il profumo

Ma sotto il manto miscuglia capziosità.

Non è che acqua lapsus e maschera

Del cielo che nega la canizie

Cosparge il fondo di gelo polveroso

Per chi scivola e si frattura.

Sulla sommità di un colle imbiancato

Anche le facce e il cuore sono

Malintesi e poco ilare l’infinito

Per drogata pienezza di naufragio.

L’opera funziona e resiste nei delicati

Pensieri che non diventino neve.

La Toffanin al contrario  canta la sacralità della vita, la speranza, la fede, la natura madre e benigna, gli “archetipi”, i valori che salvaguardano e costituiscono la dignità umana che sono l’amore, la speranza, la verità, la maternità, la religione, come unione dell’uomo con l’eterno, che dà senso e significato alla vita, e, in questa lirica dedicata al tempo pasquale, l’aprirsi dell’anima alla vita della nuova stagione e alla gioia dello spirito che canta la vittoria gloriosa del figlio di Dio sulla morte:

Per dirti, figlio

Quale profondo immenso

Si muovesse intorno e dentro

L’attesa bambina

Del fermento di Cieli e terra.

E ogni madre, mater mea,

Quasi ne fosse vestale.

 

In quest’ora-mio segreto bagliore

Il senso di tale attesa ti svelo

Quel palpito uguale d’anima e cose

Più acceso allora nel tempo pasquale.

Quasi un odore di vita un’ansia di risorgere

Nel fremere di gemme all’aria novella

Tra refoli acerbi e lampi di sole, appena maturo

Nel primo cielo di rondini.

 

 

Le mamme ferme alle soglie

A raccogliere in fasci quei raggi di sole,

Con ansia di nuovo di mussole chiare

Per vesti bambine lievi al tepore

Tutte in fiore all’Evento.

Terse le case alla gioia spalancate

Pel risveglio del creato

Per la festa del Figlio del Signore.

 

E giorni d’irripetibili gesti

Sacri segni d’immenso rito

Cerchio che cinge l’umano e il divino

Con nastri d’erba sottile

Con mani pazienti di tuberi e gemme

Con profumo di mirto

Ed essenza d’ulivo

Istinto nativo in quel nostro vivere.

 

E tu madre eri come la vestale

Di tale gran fermento

E insieme il canto di quelle ore sante:

L’andare in cupe chiese

Nel venerdì dei Cristi

Sulla terra del patire adagiati

Nel pudore del silenzio baciati.

 

E ai sepolcri s’andava

Umile il passo solenne

Del gesto tuo ripetuto,

D’ogni dolore ignare

Ma così unite contrite smarrite

Mai come allora così insieme

Con occhi fanciulli beanti sui fiori

Solo profumo e colore inebriante.

Rugiada al morire, dicevi,

E promessa di gloria e fulgore.

 

Ma nei sabati delle campane sciolte

Le stanze riempivi del loro suono

Tu pure eri slancio di campana

Canto di vita rinata

Nell’anima nelle fronde

Eri acqua di fonte aspersa

Sui nostri occhi

Stupiti al pianto-gaudio

D’uomo e natura,

Stupiti a magia del Risorto

Che spaccava la pietra, tu dicevi,

Con cascate di Luce nuova.

 

Ed eri della Pasqua l’alleluia

La veste nuova di Grazia tessuta

Il ramo rosato schiuso

Nell’aria festosa di voci e voli,

Il cesto delle prime erbette

E del pandolce d’uvette.

Così l’attesa e la casa colmavi

Con mani di fiori e doni d’amore

Umana misura a noi dell’Evento.

 

E portavi di quel momento

Il pieno incanto dentro

Della pecora più beata

A brucare con le agnelle l’attesa,

Dell’uovo smisurato della vita

Con le sorprese liete-amare aperte

Insieme o sole del dopo,

Di quell’albero lucente

Di uova colorate

Costume-rito-fantasia

Augurio per la compagnia

Nei lunedì dell’Angelo

Pei colli sui prati

Al vento d’anemoni e viole.

 

E così mi ritorni ad ogni primavera

Nell’ora d’anima in attesa

Vestale

Del fermento di cieli e terra

Fedele e desta

Ad insegnarmi ancora la vita.     

                                                                   

Gianni Giolo

Gianni Giolo