CHE COS’E’ LA POESIA?
Che cos’è la poesia? Chi è il poeta? Poeta non è chi scrive poesie, ma chi ha un’intenzionalità diversa da ogni altra e sa trovare proprio quella parola che, dantescamente, indica la strada quando essa sembra smarrita. Un poeta è poeta quando sa varcare i muri e trasformare quei muri sui quali spuntano pungenti i “cocci aguzzi di bottiglia” di Montale nei “muri della terra” di Caproni, quando sa mutare, come dice Zanzotto, l’oltraggio in “beltà”. In un mondo come il nostro senza valori, in un mondo dissacrato e senza speranza, in cui la poesia si limita a cantare la solitudine, la rinuncia, la desolazione, la delusione, l’angoscia, la disperazione e il “male di vivere”: “non domandarci – canta Montale – la formula che mondi possa aprirti”, ma la poesia può solo offrire “qualche storta sillaba e secca come un ramo”. Oggi la poesia è consapevolezza della negatività, del non essere, del mancato realizzarsi dell’uomo.
Ben diversa invece la poesia nell’Ottocento che cantava, come nel Foscolo, i grandi miti dell’età classica, la gloria (il kleos omerico), l’onore, la patria, la storia, la bellezza,
l’aura beltade ond’ebbero
ristoro unico a’ mali
le nate a vaneggiar menti mortali.
Nelle Grazie il poeta innalza un monumento alla bellezza. Leggiamo l’epilogo del terzo Inno, il carme d’addio alla bellezza e la promessa del poeta di rinnovare il rito, ogni anno, al ritorno della primavera:
Addio, Grazie: son vostri e non verranno
Soli quest’inni a voi, né il vago rito
Oblieremo di Firenze ai poggi
Quando ritorni April. L’arpa dorata
Di novello concento adorneranno,
Disegneran più amabili carole
E più beato manderanno il carme.
Le tre avvenenti ancelle vostre all’ara:
E il fonte, e la frondosa ara e i cipressi,
E i serti e i favi vi fien sacri, e i cigni
Votivi, e allegri i giovanili canti
E i sospiri delle Ninfe. Intanto, o belle,
O dell’arcano vergini custodi
Celesti, un voto del mio cuore udite.
Date candidi gigli a lei che sola,
Da che più lieti mi fioriano gli anni
M’arse divina d’immortale amore.
Il poeta ormai vecchio ricorda l’immortale amore della giovinezza, fiorito quando giovane trentenne saliva la cattedra universitaria di Pavia e trascorreva i giorni felici fra gli studi e il plauso dei dotti, confortato dall’immortale amore.
Anche il Manzoni nell’Adelchi canta l’amore immortale di Ermengarda, moglie ripudiata, per Carlo. Lei muore perché non riusciva a dimenticare , a soffocare il suo amore e gli irrevocati giorni della felicità, giorni irrevocati perché non richiamati volontariamente alla memoria:
Sgombra, o gentil, dall’ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all’Eterno un candido
Pensier d’offerta e muori:
Fuor della vita è il termine
Del lungo tuo martir.
Tal della mesta, immobile
Era quaggiuso il fato:
Sempre un obblio di chiedere
Che le saria negato;
E al Dio de’ santi ascendere,
Santa del suo patir.
Ahi! nelle insonni tenebre,
Pei claustri solitari,
Tra il canto delle vergini,
Ai supplicati altari,
Sempre ai pensier tornavano
Gl’ irrevocati dì;
Quando ancor cara, improvvida
D’un avvenir malfido,
Ebbra spirò le vivide
Aure del Franco lido
E tra le nuore Saliche
Invidiata uscì…
Così il Leopardi canta i miti, le illusioni, i sogni, le speranze deluse, gli ameni inganni della sua giovinezza:
O speranze, speranze: ameni inganni
Della mia prima età! Sempre, parlando,
Ritorno a voi;
Anche se le speranze sono morte il poeta le richiama e parla con loro, come farebbe una madre che parla con il figlio morto:
che per andar di tempo,
Per variar d’affetti e di pensieri,
Obliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l’onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o miei speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile,
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m’avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle e al mio sguardo
Fuggirà l’avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell’imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L’esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d’affanno.
Il Carducci invece canta gli ideali della rinascita sociale del popolo italiano, l’elevazione delle classi umili, fatte libere e forti nella giustizia e nel lavoro e questo suo sogno si veste di forme luminose, quasi di una divinità gentile:
Salute, o genti umane affaticate!
Tutto trapassa e nulla può morir.
Ciò che non può morire non è l’uomo, ma la natura che non verrà mai meno e genera perpetuamente se stessa:
Noi troppo odiammo e sofferimmo. Amate.
Il mondo è bello e santo l’avvenir.
Che è che splende su da’ monti, e in faccia
Al sole appar come novella aurora?
Di questi monti per la rosea traccia
Passeggian dunque le madonne ancora?
Le madonne che vide il Perugino
Scender ne’ puri occasi de l’aprile,
e le braccia, adorando, in su’l bambino
Aprir con deità così gentile?
Ell’è un’altra madonna, ell’è un’idea
Fulgente di giustizia e di pietà:
Io benedico chi per le cadea,
Io benedico chi per lei vivrà.
Il Pascoli invece tutto rivolto a penetrare il segreto senso delle cose e a scoprire in esse un messaggio di morte e di precario senso di fragilità e di vuoto:
Gèmmea l’aria, il sole così chiaro
Che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
E del prunalbo l’odorino amaro
Senti nel cuore…
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
Di nere trame segnano il sereno,
E vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
Sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
Odi lontano, da giardini ed orti,
Di foglie un cader fragile. E’ l’estate,
Fredda dei morti.
Nel Novecento cito solo tre poeti che si caratterizzano per una certa ambizione di tono e di canto alto e per una culta ed elaborata ricerca di compostezza formale: Vicenzo Cardarelli, Cesare Ruffato e Maria Luisa Daniele Toffanin.
Cardarelli canta le stagioni e il loro fenomenico variare di luci e colori e in particolare la stagione autunnale che, sentita nella sua malinconica dolcezza, assume il significato di emblema della vita che s’avvicina al tramonto:
Un tempo, era d’estate,
Era a quel fuoco, a quegli ardori,
Che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all’autunno
Dal colore che inebria,
Amo la stanca stagione
Che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
Nulla più mi consola,
Di quest’aria che odora
Di mosto e di vino,
Di questo vecchio sole ottobrino
Che splende sulle vigne saccheggiate.
Sole d’autunno inatteso,
Che splendi come in un di là,
Con tenera perdizione
E vagabonda felicità,
Tu ci trovi fiaccati,
Vòlti al peggio e la morte nell’anima.
Ecco perché ci piaci,
Vago sole superstite
Che non sai dirci addio,
Tornando ogni mattina
Come un nuovo miracolo,
Tanto più bello quanto più t’inoltri
E sei lì per spirare.
E di queste incredibili giornate
Vai componendo la tua stagione
Ch’è tutta una dolcissima agonia.
Ruffato, nei suoi ultimi libri tutti protesi verso l’estrema Parca e verso il colloquio escatologico con l’al di là e con il silenzio bianco della morte, canta la caduta e il naufragio di tutti i valori nella nostra società senza fede e senza speranza:
Si dice che la neve ricopra il pane
Lasciandone fiorire il profumo
Ma sotto il manto miscuglia capziosità.
Non è che acqua lapsus e maschera
Del cielo che nega la canizie
Cosparge il fondo di gelo polveroso
Per chi scivola e si frattura.
Sulla sommità di un colle imbiancato
Anche le facce e il cuore sono
Malintesi e poco ilare l’infinito
Per drogata pienezza di naufragio.
L’opera funziona e resiste nei delicati
Pensieri che non diventino neve.
La Toffanin al contrario canta la sacralità della vita, la speranza, la fede, la natura madre e benigna, gli “archetipi”, i valori che salvaguardano e costituiscono la dignità umana che sono l’amore, la speranza, la verità, la maternità, la religione, come unione dell’uomo con l’eterno, che dà senso e significato alla vita, e, in questa lirica dedicata al tempo pasquale, l’aprirsi dell’anima alla vita della nuova stagione e alla gioia dello spirito che canta la vittoria gloriosa del figlio di Dio sulla morte:
Per dirti, figlio
Quale profondo immenso
Si muovesse intorno e dentro
L’attesa bambina
Del fermento di Cieli e terra.
E ogni madre, mater mea,
Quasi ne fosse vestale.
In quest’ora-mio segreto bagliore
Il senso di tale attesa ti svelo
Quel palpito uguale d’anima e cose
Più acceso allora nel tempo pasquale.
Quasi un odore di vita un’ansia di risorgere
Nel fremere di gemme all’aria novella
Tra refoli acerbi e lampi di sole, appena maturo
Nel primo cielo di rondini.
Le mamme ferme alle soglie
A raccogliere in fasci quei raggi di sole,
Con ansia di nuovo di mussole chiare
Per vesti bambine lievi al tepore
Tutte in fiore all’Evento.
Terse le case alla gioia spalancate
Pel risveglio del creato
Per la festa del Figlio del Signore.
E giorni d’irripetibili gesti
Sacri segni d’immenso rito
Cerchio che cinge l’umano e il divino
Con nastri d’erba sottile
Con mani pazienti di tuberi e gemme
Con profumo di mirto
Ed essenza d’ulivo
Istinto nativo in quel nostro vivere.
E tu madre eri come la vestale
Di tale gran fermento
E insieme il canto di quelle ore sante:
L’andare in cupe chiese
Nel venerdì dei Cristi
Sulla terra del patire adagiati
Nel pudore del silenzio baciati.
E ai sepolcri s’andava
Umile il passo solenne
Del gesto tuo ripetuto,
D’ogni dolore ignare
Ma così unite contrite smarrite
Mai come allora così insieme
Con occhi fanciulli beanti sui fiori
Solo profumo e colore inebriante.
Rugiada al morire, dicevi,
E promessa di gloria e fulgore.
Ma nei sabati delle campane sciolte
Le stanze riempivi del loro suono
Tu pure eri slancio di campana
Canto di vita rinata
Nell’anima nelle fronde
Eri acqua di fonte aspersa
Sui nostri occhi
Stupiti al pianto-gaudio
D’uomo e natura,
Stupiti a magia del Risorto
Che spaccava la pietra, tu dicevi,
Con cascate di Luce nuova.
Ed eri della Pasqua l’alleluia
La veste nuova di Grazia tessuta
Il ramo rosato schiuso
Nell’aria festosa di voci e voli,
Il cesto delle prime erbette
E del pandolce d’uvette.
Così l’attesa e la casa colmavi
Con mani di fiori e doni d’amore
Umana misura a noi dell’Evento.
E portavi di quel momento
Il pieno incanto dentro
Della pecora più beata
A brucare con le agnelle l’attesa,
Dell’uovo smisurato della vita
Con le sorprese liete-amare aperte
Insieme o sole del dopo,
Di quell’albero lucente
Di uova colorate
Costume-rito-fantasia
Augurio per la compagnia
Nei lunedì dell’Angelo
Pei colli sui prati
Al vento d’anemoni e viole.
E così mi ritorni ad ogni primavera
Nell’ora d’anima in attesa
Vestale
Del fermento di cieli e terra
Fedele e desta
Ad insegnarmi ancora la vita.
Gianni Giolo
|