Gianni Giolo
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DINO BUZZATI

L’AMORE PER  LA MONTAGNA

Si sono svolte alla Chiesetta di San Marco a Marostica un ciclo di conferenze su Dino Buzzati di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita (è nato a Belluno nel 1906). Fino alla laurea Buzzati seguì le tradizioni di famiglia: frequentò il liceo classico Parini di Milano, dove ascoltò con passione le lezioni del prof. Luigi Castiglione, suo insegnante di lettere; poi si iscrisse alla facoltà di legge che frequentò senza particolare entusiasmo, ma, com’era tipico del suo temperamento, portandola doverosamente fino in fondo e laureandosi, al momento giusto, con una tesi su “La natura giuridica del Concordato”. La sua grande passione fu la montagna: “scalare una montagna mi ha sempre dato un’emozione spaventosa. L’unico punto fermo della mia vita era la passione per la montagna: una passione, del resto, che non mi mai abbandonato. Tutte le notti sogno di scalare pareti vertiginose, di superare grandi abissi: è  una specie di romanzo a puntate che si interrompe misteriosamente solo quando sono in  montagna”. Quando frequentava la quarta ginnasio, all’età di 14 anni, scrisse il più bell’inno dedicato alla montagna: “Montagne! che siete belle purissime, nelle albe violacee, frementi negli arrossati tramonti. I vostri picchi strapiombanti nelle nevi eterne, io amo. I vostri ghiacciai silenziosi. Vorrei stare tra i giganti, i giganti di rocce che vanno nel cielo, i frementi giganti che cantano le silenziose canzoni dell’infinito, i giganti che ascoltano le cupe leggende dei ghiacciai venute, come uno strano mormorio, dal seno dei crepacci profondi. Montagne divine, che nulla è più bello, regine della libertà e dell’infinito!”. Gli scritti (che vanno dal 1932 al 1971) di Buzzati sulla montagna sono stati raccolti da Enrico Camanni nel libro “Le montagne di vetro”. Si citano tre articoli celebri: il primo riguarda il colore e il cromatismo della montagne delle Dolomiti del 1956; il secondo la mitica figura di Zapparoli, un eroe morto in una scalata di una delle montagne più impervie delle Alpi del 1951;  il terzo  la conquista dell’Everest del 1953.

Il primo porta il titolo “Ma le Dolomiti cosa sono?”: “In certe giornate limpidissime di autunno, perfino dai tetti più alti di Venezia si possono distinguere, anche senza bisogno di binocolo, le Dolomiti. Non solo il loro confuso profilo di montagne, misteriosa barriera che  chiude il nord (e al di là che cosa esiste? Quali mondi si stenderanno di là della muraglia?). Ma se ne riconosce anche il colore. Dalle 11 del mattino a pomeriggio inoltrato una piccola  macchia lucente risplende infatti all’orizzonte. E’ la faccia sud dello Schiara, una delle poche grandi pareti dolomitiche che guardano direttamente la pianura. Di che colore? Si può trovare un aggettivo esatto per definire quella tinta così diversa da tutte le altre montagne, che al sottoscritto, ogni volta che ci fa ritorno e la rivede, provoca un trasalimento interno, risollevando ricordi struggenti? No, un aggettivo preciso non esiste. Più che un colore preciso, si tratta di una essenza, forse di una materia evanescente che dall’alba al tramonto assume i più strani riflessi, grigi, argentei, rosa, gialli, purpurei, viola, azzurri, seppia, eppure è sempre la stessa, così come una faccia umana non cambia anche se la pelle è pallida o bruciata…Soltanto dopo Feltre, all’improvviso, verso sinistra, la prima Dolomite. E’ il Sass da Mur, ben pochi la conoscono. Ansiosi dei picchi più famosi, i viaggiatori passano oltre, senza neppure rallentare. Eppure è una Dolomite già perfetta, con tutti i segni della grande razza, gli apicchi rosa e gialli, le cenge orizzontali spolverate di bianco, i coni di ghiaia, le nudità, le rotte creste. Guardatela un momento, fissatevi bene in mente quella tinta, la ritroverete tale e quale nell’empireo…Adesso si cominciano a intravedere gli ingredienti di cui è composto l’indescrivibile colore. Sono le ghiaie bianche, sparse sui ballatoi, sui terrazzini, sulle minime sporgenze. Battute dal sole, esse risplendono, e riverberano intorno una diffusa luce. Proprio a queste ghiaie candide è dovuto in gran parte la magnificenza delle rupi, la loro serenità sontuosa; tanto è vero che d’inverno, quando la neve le ricopre, i picchi risultano alquanto immiseriti…E da tutto questo, per chi guarda dal fondo delle valli, che colore risulta? E’ bianco? giallo? grigio? madreperla? E’ il color cenere? E’ riflesso d’argento? E’ il pallore dei morti? E’ l’incarnato delle rose? Sono pietre o sono nuvole? Sono vere oppure è un sogno?”.

Il secondo articolo riguarda Zapparoli, un mediocre musicista e scrittore senza fortuna, una romantica figura di alpinista solitario, autore di diverse scalate, scomparso nel 1951 sulla parete est  del massiccio del Monte Rosa: “Benché io non sia stato là, lo vedo uscire dal rifugio Marinelli alla luce della luna e allontanarsi attraverso le rocce e poi sulla fosforescente neve, tric tric si ode il suono ritmico della sua piccozza sulle pietre, tric tric sempre più lontano e poi silenzio, soltanto la sua sottile sagoma scura tra i ghiacciai, dritta, viva, fin troppo romantica,  con la eleganza rigorosa di chi parte per l’eternità…Così lo vedo farsi via via più piccolo e vago nel pallore della notte. Ma a questo punto, per quanto io sforzi l’immaginazione, non riesco a vederlo scomparire. E’ sempre là che manovra con la picca e, un passo dopo l’altro, si addentra nello sterminato labirinto con attaccata la sua sottile ombra sghemba rovesciata in giù lungo lo sdrucciolo. E’ separato ormai senza remissione da noi, dalle calde stanze, dagli amici seduti in circolo la sera, dalle lampadine accese sui leggii dei principeschi pianoforti neri. Di là della frontiera, irraggiungibile, che non si volta neanche se noi urliamo, e mai si ferma. Eppure, per quanto egli si allontani spaventosamente, io continuo a vederlo là, solo, che lotta in mezzo ai ruderi fantomatici delle sue vitree cattedrali”.

Il terzo articolo riguarda la conquista dell’Everest del 1953, una data da ricordare negli annali dell’alpinismo, ma una data triste per  Buzzati, perché si è violato un mito che apparteneva alla leggenda della grande montagna. Fino al 1953 l’Everest era rimasto inviolato, imprendibile e inaccessibile. Ora la montagna suprema e inafferrabile da divina è diventata umana: “Era l’ultima occasione della nostra fantasia, la superstite rocca dell’ignoto, il residuo frammento dell’impossibile che la Terra conservava. Benché fotografato da ogni parte, misurato metro per metro con gli strumenti topografici, registrato meticolosamente sulle carte, l’Everest era di una immensità senza confini, proprio perché non conquistato. Oggi l’incanto è rotto, oggi siamo sicuri che la cima favolosa è fatta come tutte le altre, che non vi abitano gli dei della montagna. Oggi l’Everest entra, pur se al primo posto, nel repertorio delle cime note, con nomi e cognomi di alpinisti, descrizioni dell’itinerario eccetera. E’ insomma  incominciata la sua storia, ma è finita la leggenda”.

 

Gianni Giolo

 

 

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