FERNANDO BANDINISI MOBILITANO GLI INTELLETTUALI VENETI PER LA DIFESA DEL PAESAGGIO.
Il paesaggio veneto ormai non esiste più. Se lo si vuol ancora contemplare bisogancercare gli artisti veneti dal Cinquecento all’Ottocento. Andrea Zanzotto, il grande cantore del Veneto che non esiste più, dice alla stampa: “Il progresso ci ha schiacciato fino a non poter più respirare per il nostro stesso peso”. Alla platea che lo attendeva al castello di San Salvatore, feudo paesaggistico incontaminato a Susegana, a pochi chilometri da Canegliano e da Treviso, dove si sono incontrati gli intellettuali toscani dei comitati per la difesa del territorio e gli intellettuali veneti dei movimenti di salvaguardia del territorio, che annovera fra i padri nobili lo stesso Zanzotto, Mario Rigoni Stern e Luigi Meneghello, che diede la sua convinta adesione poco prima della sua scomparsa, ha lanciato il suo SOS per i paesaggi veneti. Da un lato il gruppo dei comitati toscani sotto la guida di Alberto Asor Rosa, uscito allo scoperto contro la cementificazione di Monticchiello val d’Orcia, dall’altro “il patto veneto per la bellezza”, avviato qualche mese fa sull’ondata dell’appello lanciato dallo stesso Zanzotto. All’appello risposero studiosi, docenti e comitati cittadini sorti negli ultimi anni in tutti gli angoli del Veneto minacciati dal mattone e dal cemento. Ogni provincia ne raccoglie circa una cinquantina. E nell’incontro fra amanti del paesaggio del Veneto e della Toscana hanno partecipato numerosi comitati e associazioni come Fai, Italia Nostra, Fondazione Benetton Studi e Ricerche, i cittadini che difendono il territorio di Caorle, di Bibione, di San Michele al Tagliamento, di Mirano, del Parco del Consiglio, di Ambiente Vittorio Veneto, Paeseambiente, Uomo Ambiente e Salvapolicella. Tutti assieme per accogliere l’appello di Asor Rosa che ha firmato un documento, in cui sostiene che “la difesa del territorio è diventata emergenza nazionale”. L’intellettuale “auspica che tra i comitati veneti e quelli toscani si stabilisca una rete di relazioni, di scambi di idee e di organizzazione, che miri alla creazione di una rete interregionale per reggere il confronto con le amministrazioni locali e centrali”. Anche i comitati piemontesi hanno aderito al progetto che intende dar vita a un nuovo soggetto politico-culturale in grado di dialogare con le istituzioni e di organizzare un convegno la prossima primavera. E’ ancora possibile - hanno chiesto i giovani a Zanzotto - “recuperare le geografie rubate”? “Sì - ha risposto il poeta di Soligo – alcune amministrazioni sono ancora in grado di ascoltare”. A tal proposito abbiamo fatto alcune domande a Fernando Bandini, presidente dell’Accademia Olimpica, che si è tanto battuto per la salvaguardia dell’orto vicentino sulle sponde del Retrone.
Presidente Bandini, ritiene, come Zanzotto, che la questione ambiente sia divenuta un’emergenza nazionale?
E’ disperatamente necessaria la presenza degli intellettuali nella difesa del paesaggio. Anche se risulta tardiva perché è da decenni che si perpetua nel nostro paese il guasto del paesaggio. Oggi non si può che aderire a questa iniziativa promossa dai più prestigiosi intellettuali veneti. Nel frattempo però gli intellettuali hanno perduto quella capacità di persuasione, quel forte prestigio che possedevano al tempo della “prima repubblica”. Si è verificata una profonda frattura fra intellettuali e società e questi ultimi sono un po’ considerati come il due di coppe a briscola quando la va a spade. Il mondo degli affari e del potere è sordo alle loro ragioni e non comprende che essi parlano in nome dell’interesse generale, li vede come una corporazione nevrotica chiusa in una sua visione limitata e passatistica.
Presidente Bandini, Lei è stato uno degli intellettuali di prestigio che non sono stati invitati all’inaugurazione del Nuovo Teatro. Quando ha festeggiato a Palazzo Trissino i suoi settant’anni il sindaco Hullweck non è intervenuto e lo ha definito “persona politicamente non gradita”. Lei crede che permanga ancora nell’attuale amministrazione un pregiudizio nei suoi confronti?
Non mi piace fare la parte di chi giura vendetta per un mancato invito. Personalmente, nel corso del mio impegno civile, sono stato tra quelli che più si sono battuti per decenni, a partire dagli anni Cinquanta per la costruzione del teatro (come ampiamente documentato nel libro di Di Lorenzo). Ma questo dato personale può anche non contare. Il mancato invito riguarda infatti l’Accademia Olimpica nel suo complesso che io attualmente rappresento. Il fatto è che il sindaco non conosce la società vicentina e la sua storia, ha di essa una visione ideologica e astratta non diversa da quella di quando da ragazzo militava nel FUAN. Nessuno può negare il suo merito nella realizzazione di un’impresa così a lungo attesa e che per cinquant’anni a tutti i suoi predecessori era fallita. Ma in lui c’è l’aggravante psicologica di un narcisismo famelico che trasforma anche gli eventi pubblici in capitoli della sua personale autobiografia offrendo il suo io, attraverso di essi, alla universale ammirazione.
Presidente Bandini, da socialista non pentito attento ai problemi economici della popolazione ritiene che la costruzione del nuovo teatro costituisse una priorità assoluta?
Lo spessore dei problemi che avrebbero la precedenza rispetto a quello del teatro è sempre stata la scusa della passate amministrazioni per non costruire il teatro. In un mio intervento in Consiglio Comunale dei remoti anni Sessanta ricordavo che negli anni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre (quando ancora nel progetto comunista rimanevano prospettive di umano respiro) c’erano in Russia fame e carestia, la gente coabitava in condizioni disumane, e ciononostante si costruivano i teatri prima delle case, si finanziava il Bolscioi, vastissima era la spesa della cultura. Perché senza una cultura diffusa non è possibile nemmeno per le capacità nettamente superiori rispetto a quella sovietica di allora, di una società democratica, risolvere i problemi “che hanno assoluta precedenza”
Presidente Bandini, Lei ha scritto che “il più grave errore che la città potrebbe commettere è pensare che, costruito il teatro, tutto il resto si svilupperà in modo miracoloso e spontaneo”.
Al problema della futura gestione del teatro l’Accademia, in collaborazione coi Lions, ha dedicato un giorno di convegno al quale sono stati invitati i più noti esperti (registi e direttori di teatri) delle città del Nord-Est. Oggi gli Atti di quel convegno sono pubblicati. Ai lavori è stato presente anche il Sindaco che ha chiuso i lavori con un suo intervento. Le prime risposte da parte della città (abbonamenti e prenotazioni) sono molto positive. Ma c’è da mettere in conto il fervore di un evento di tale portata in una città come la nostra dove di cose eccitanti ne accadono poche. I prossimi mesi danno indubbiamente segni confortanti ma non sono un’immagine del futuro. Il futuro va costruito con una approfondita riflessione e un dibattito che ancora non ha avuto luogo.
L'ANTOLOGIA DI FRANCO LOI E I POETI VICENTINI
Nell’androne della Biblioteca Bertoliana campeggia uno scaffale dedicato alla poesia. Spicca l’opera di Franco Loi che è venuto qualche giorno fa a Vicenza a presentare le sue poesie in dialetto milanese, strappando al pubblico lunghi applausi. La poesia di Loi – ha detto Franco Africo – “sintetizza perfettamente uno dei paradossi della lirica moderna. Da una parte essa appare inattuale ma dall’altra, proprio grazia a questa inattualità, essa si pone come ipotesi di futuro migliore. Non per nulla il verbo “infuturare” è una parola chiave del lessico poetico di Loi”. Loi ha scritto un libro importante sulla poesia del ‘900 “Il pensiero dominante. Poesia italiana 1970-2000” edita dalla Garzanti. In essa compaiono come poeti veneti Andrea Zanzotto, Ferdinando Bandini, Silvio Ramat e Stefano Broggiato. Non si cita nemmeno Cesare Ruffato che in quarant’anni di attività ha scritto molte e importanti raccolte di poesia e che a sua volta dirige una collana di poesia della Marsilio nella quale non compaiono gli autori che si trovano nell’altra (fatta eccezione per il giovane Broggiato). Una reciproca e sotterranea “conventio ad escludendum” mascherata da una presunta oggettività nelle opinabili scelte poetiche. Che Ruffato e Loi si detestino cordialmente lo si è visto nell’incontro di Palazzo Trissino di qualche anno fa che si è trasformato in uno scontro durissimo. Nel libro di Loi si tratteggia nel primo capitolo una sintesi della poesia del ‘900 e si espongono i criteri di selezione dei poeti. “E’ stato un lavoro di scoperta – scrive Loi – e di vaglio, durissimo da compiere ma bello sa condividere. Molto ci sarà sfuggito, omesso qualche testo su cui ci ricrederemo. I libri del genere andrebbero realizzati per le poesie che escono ogni anno. Negli Stati Uniti e in Inghilterra qualcosa di simile viene fatto. La scelta di porre come limite a monte il 1970 è stata dettata da motivi editoriali e anche casuali. Eppure si può prevedere che trent’anni di poesia racchiudano, in una salutare compresenza, esperienze già compiute e, per così dire, storicizzate, esperienze in piena maturazione e i fermenti delle nuove voci. Ma possiamo dire, in coscienza, di esserci impegnati perché il grande bene comune della poesia trovasse in questa importante occasione antologia un’adeguata proposizione”.
La poesia scelta da Loi di Fernando Bandini è una “consolatio ad uxorem 2”. Stupenda nella sua commovente serenità elegiaca. Il poeta aveva promesso alla moglie una casa di compagna, ma “adesso andiamo / in cerca della casa per le strade / mai prima visitate di questo nostro autunno / che ha il profumo amarognolo dell’Ade”. Ai due non resta che un “peculio di luce” che ricorda il “peculium” di Titiro nella prima ecloga di Virgilio, che gli ha permesso di recuperare la libertà. L’unica libertà che rimane ai coniugi Bandini è quella di sognare uno scampolo estremo di orizzonte e di destino che “ci resterà negli occhi sotto le palpebre”.
La poesia di Broggiato è “Casa latina”. Si tratta di sei ore trascorse a Milano “a forzare la giovane luna / nel suo angolo in ombra intenta / a divorare i freschi contorni / i passi del ritorno”. Un momento, un angolo, un attimo di trepida attesa segnato da una “luce d’ottobre mai esistita”. Parole liquide, oscure e accorate per gli abbandoni del cuore e le vertigini della mente.
BANDINI E L’IPPOPOTAMO DEL RETRONE
E’ venuto a Bassano Fernando Bandini, presidente dell’Accademia Olimpica, e ha parlato al “Cenacolo”, presieduto da Chiara Ferronato, dei suoi libri di poesia e in particolare dell’ultimo “Dietro i cancelli e altrove”, concludendo il suo discorso con la lettura della famosa poesia in dialetto “La ciupinara”. E’ stato presentato dal poeta bassanese Antonio Faccio che ha illustrato tutta la sua opera da “in modo lampante” (1963), “Per partito preso” (1965), “Memoria del futuro” (1969), “La mantide e la città” (!979), “Il ritorno della cometa” (1985), “Santi di dicembre” (1994), “Meridiano di Greenwich” (1998), dove accanto a poesie in lingua figurano anche testi in dialetto e in latino (Bandini è stato spesso premiato nel “Certamen Hoeufftianum” e nel “Certamen Vaticanum”). Faccio ha approfondito la natura della poesia di Bandini che è poeta tessitore estremamente controllato del verso dotato di una cultura tecnologica che sa studiare, modulare e strutturare la parola secondo un’arte culta e profonda e una grande capacità di operare all’interno dei testi e delle strutture metriche, una lingua raffinata, elaborata e costruita che non si recita ma si medita. “La poesia di Bandini – ha detto Faccio – è poesia verità che riguarda il nostro modo di essere e di porsi davanti alla realtà e al contesto storico e propone testi che si drammatizzano e acquistano una risonanza universale”. Bellissimo il suo dialetto che diversissimo da quello di Zanzotto, ma ricco di modulazioni segrete, forse più spontaneo e duro per la sua natura preculturale e antropologica che presenta un mondo lontano, più sobrio e pudico del nostro, premuto dalla povertà, ma aperto alla speranza e dominato dalla figura della madre che, come ricorda il poeta nella lirica “Mia madre cuciva tomaie”, “fino alle tre vegliava / ed era esatte e farfalle notturne / assalivano il lume sibilando”. Nel Bandini latino che ripropone una lingua morta ma estremamente viva nella quale come e più che nel dialetto sono rimaste sepolte e miracolosamente intatte le nostre sensazioni più remote e profonde dominano e tonalità pascoliane, ma soprattutto virgiliane, poeta, a differenza di Orazio, intraducibile per il fascino segreto della sua poesia che ci inoltra nei meandri dell’ignoto e del mistero (Faccio ha ricordato i versi dell’Eneide ibant oscuri sola sub nocte per umbram). Nel poemettto “Santi duo decembris mensis”, contenuto in “Santi di dicembre”, la raccolta del 1994 compaiono paesaggi innevati, sogni di bambini, epifanie di vita segreta della natura, improvvise fioriture oniriche, in cui con sapienza pascoliana il microcosmo e il macrocosmo si corrispondono e si richiamano con intensa capacità di straniamento reciproco. Nell’ultimo libro “Dietro i cancelli e altrove” c’è un parte dedicata al presente, intitolata Maltempo, con riferimento ai mala tempora, al tempo presente, un presente fradicio e corrotto, al quale si contrappone un tempo fortemente interiorizzato, segnato dall’attesa, da un’utopia magnificata e lustrata dalla memoria. La prima poesia di Bandini era caratterizzata da un forte impegno civile che voleva cambiare il mondo, ora però il suo verso diventa un sacrario di memorie fatto di cadenze visionarie e fantastiche che si rifugia nel passato e nella sua “fanciullezza sepolta”, il sacrario della sua amarezza, della sua delusione e della sua orfanezza. Poi ha preso la parola Bandini che ha ricordato Parise e il fatto che insieme con lui dava da intendere ai compagni di scuola che nel Retrone ci fosse un ippopotamo ed essi ci credevano, ma poiché non lo vedevano i due sornioni si inventarono che era come il Behemot del libro di Giobbe che appariva e spariva o come il Leviatan, il demonio, il re su tutte le fiere più superbe. Il presente di Bandini è come questo Behemot che appare e non appare, è il tempo chronos che divora i suoi figli, evoca e annienta le cose, scaturisce improvviso a folate e scivola rapidamente in una gola oscura, come l’Enea di Virgilio che penetra nei recessi dell’Ade. Bandini ha parlato della sua scrittura passata che da un entusiasmo giovanile per il fare poetico è passata a un gelo e a una freddezza assoluta e totale che talvolta lo ha spinto a scrivere “delle boiate pazzesche” successivamente rifiutate perché sa di aver un angelo misericordioso che come l’Apollo di Callimaco gli tira le orecchie e gli suggerisce di lasciar perdere. Non sono come Pasolini – ha detto il poeta – che ha scritto dei versi bellissimi ma anche i più brutti versi del Novecento senza accorgersene. Bisogna saper scrivere poesia anche senza ispirazione (l’enhtousiasmos di platoniana memoria) ed ha elogiato i gesuiti che allenavano i loro allievi a scrivere poesie su determinati argomenti. Forse che a un pittore richiediamo l’ispirazione per dipingere un quadro? E perché la pretendiamo dai poeti? L’importante è saper suscitare emozioni negli altri. Questo è il compito della poesia. Non si scrive per se stessi, ma per gli altri, anche se – come canta Bandini – “il mondo è sordo e non riesce a capire / e si chiede a che serva quest’avaro / tesoro di virtù che nessuno attesta”.
Gianni Giolo
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