Gianni Giolo
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LUIGI MENEGHELLO

 

ISNENGHI, BANDINI LANARO RICORDANO MENEGHELLO

 

Il 26 giugno del 2007  moriva a Thiene, da solo (la moglie Katia era deceduta tre anni prima),  Luigi Meneghello, uno dei più grandi scrittori italiani del ‘900. Nell’anniversario della morte una serie di iniziative si terranno a Malo a fine mese, ma intanto l’università di Reading, dove lo scrittore insegnò per quasi mezzo secolo e l’Istituto italiano di Cultura di Londra hanno proposto un convegno su “Meneghello: Fiction, Scholarship, Passione civile”. I lavori si sono tenuti al Museum of English Rural Life di Reading e all’Istituto italiano di cultura a Londra, dove hanno parlato studiosi e specialisti della scrittura del grande autore di “Libera nos a malo”. Sono intervenuti, fra gli altri, Percy Allum, delle università di Napoli e di Reading, che ha parlato su “The ladies of Rotzo: a cautionary Tale”, Pietro De Marchi, italianista alle università di Neuchatel e di Zurigo, che ha dissertato su “Libri inglesi e Italian Letters”. Meneghello saggista negli anni Cinquanta”, Francesca Caputo dell’università di Milano che ha trattato di “Fiori tra le Carte. Esperienze di scuola e si studio nello zibaldone di Meneghello”, Ernestina Pellegrini che ha approfondito il tema “Solo donne: per una rassegna di figure femminili nell’opera di Meneghello”, Giulio Lepschy, dell’università di Reading e di Cambridge, che ha dissertato su “Lingua e dialetto. Oggi e allora”, Arturo Tosi che ha parlato su  “La stampa italiana del giorno dopo, gli obituaries e i ricordi on line”. I lavori si sono chiusi con la proiezione del film “I piccoli maestri” di Luchetti.

Lo storico Mario Isnenghi, docente di storia moderna all’università di Venezia, il professore-poeta-critico Fernando Bandini, presidente dell’Accademia Olimpica,  e il professore-poeta-scrittore  Paolo Lanaro lo hanno ricordato nel numero XXI della rivista “Venetica”.

Isnenghi parla di un incontro con lo scrittore avvenuto a Vicenza nella casa di Patrizia e  Emilio Franzina,  a Ponte degli Angeli, a Vicenza, nel quale lo aveva “sgridato” per il suo altero atteggiamento di “antitaliano”: “gli avevo fatto capire di non essere stato e di non essere all’altezza di certe attese. Primo, politicamente, non sembrava aver nessun intimo bisogno di prendere le distanze dalla Thatcher, suo capo di Governo volontario. Ma soprattutto a suo carico per me, c’era di mezzo quello che poi, formalizzando e nominando il concetto, chiamerà il suo dispatrio. Meneghello ci aveva rifiutato. Aveva fatto nel dopoguerra e ribadito per mezzo secolo, cioè per tutta la sua vita, quel rifiuto dell’Italia e degli Italiani che ispira la retorica dell’antitaliano. Ha origini anche nobili e colte, percorsi accreditati, rinnovate motivazioni e la si incontra e si vede reinnestata di continuo, anche negli anni e in persone  vicini a noi. Però altro è il “refrain” vittimistico e seriale, birignao inconcludente -  e da studiare anch’esso, naturalmente, vista la sua lunga durata e la natura strutturante del carattere dell’Italiano – altro è trovarselo materializzato di fronte, in uno che stimi, il dispatrio. Ti senti appunto messo a rischio, giudicato e rifiutato, da uno che ha trasportato le sue tende altrove”.

Bandini dice che Meneghello se ne è andato ma ha lasciato i suoi libri, coi quali ha adempiuto a un suo compito, ha colmato i vuoti della memoria. “Meneghello – scrive Bandini – si è rivelato come scrittore piuttosto tardi, aveva 43 anni quando nel 1964 uscì “Libera nos a malo”. La volontà di dire doveva indubbiamente avergli covato dentro per lunghi anni, con abbozzi e prove affidate alla copiosità di “carte segrete”, una copiosità di scritture che anche in anni recenti continuava ad accumularsi nei suoi cassetti. Quanto Meneghello ha pubblicato è probabile costituisca la punta di un iceberg sommerso. Scriveva con pennini infilati alla cannuccia, come nei tempi antichi quando andavamo a scuola. Esercizio simile, e insieme opposto, a quello di D’Annunzio che invece preferiva auliche penne d’oca. Ma la materia prima era l’inchiostro, veicolo naturale del deposito della memoria. Quando  “Libera nos a malo” uscì, il suo alto livello di scrittore fu subito unanimemente riconosciuto. Ricordo i fervidi consensi critici di Bassani, di Bo, di Ferrata. Ma il suo fare si distingueva nettamente da quello che era il panorama della narrativa italiana.  Innanzitutto perché Meneghello non era uno scrittore di romanzi, per il cui genere ha sempre nutrito una naturale idiosincrasia, un prodotto con trama artificiale che talvolta, però, si pretende specchio della realtà. Non ha mai amato il neorealismo di moda negli anni cinquanta-sessanta, non ha mai amato né Pavese, né Vittorini, né tanto meno Moravia. Il suo genere pretendeva la presa diretta con la realtà e questo comportava la testimonianza responsabile dell’io che ricorda e che racconta. In “Libera nos a malo” e nelle cose che poi scriverà, Meneghello è singolarmente vicino agli scrittori protonovecenteschi della rivista “La Voce”, anch’essi diffidenti nei confronti del romanzo e che affidano le loro prose a qualche lampante, commossa verità: nei quali l’apparente frammentarietà dei testi viene risarcita dalla durata intensa della coscienza.  Scrittori come furono Slataper e Jahier. Quest’ultimo amante del prosimetro (un testo cioè che fonde all’interno del racconto prosa e versi). Anche “Pomo Pero” è un prosimetro; dove la parte versale non è però lirica riflessione o improvvisa espansione dell’io sui dati della realtà affabulati dalla prosa. La parte versale è costituita sugli archetipi della lingua-dialetto: puri significanti ordinati secondo somiglianze prosodiche; relitti remoti di qualche lingua magica e scomparsa. Parole antiche che definivano le cose e che meglio sembravano cogliere, più della lingua imparata a scuola, l’essere stesso delle cose. C’è più di un cordiale lettore di Meneghello che legge lo scrittore in chiave bozzettistica, senza afferrare l’in più di senso che il dialetto realizza nelle sue pagine. Ma egli stesso ci mette in guardia quando afferma che “ape” e “ava” non sono la stessa cosa, non possiedono il medesimo  “tóde ti”, perché l’”ava” viene dalla zona dei noumeni. E scrive: “Sento quasi un dolore fisico a toccare quei nervi profondi a cui conduce “basavejo” e “babastrìjo”, ava e anguàna, ma anche solo rùa e pùa. Da tutto sprizza come un lampo-sgiantìzo, si sente il modo ultimo di quella che chiamiamo la nostra vita, il groppo di materia che non si può schiacciare, il fondo impietrito”.

Paolo Lanaro ricorda che abitava a Malo con la famiglia, a due passi dall’officina da dove uscivano e dove entravano le corriere con cui i Meneghello, ramo autolinee, servivano la tratta Valdagno-Malo-Thiene. Lui, Gigi, arrivava d’estate con la moglie Katia, su una MG decappottabile. Lo vedeva scendere da quell’auto indossando dei mezzi guanti di pelle che allora erano un segno inequivocabile di dandismo automobilistico. In paese nessuno si sarebbe mai sognato una cosa del genere.

Poco dopo Meneghello pubblicò “Libera nos a malo”. In paese suscitò sorpresa e adesioni fervide, ma anche una vaga irritazione da parte di chi forse non compariva nel romanzo nel modo in cui avrebbe desiderato. La critica letteraria maladense non era né strutturalista né stilistica. I compaesani si limitavano a verificare la veridicità degli episodi raccontati nel libro: era vero per esempio che Gastone Fiore si era buttato dal tetto della casa con un ombrello, come era vero che Carlo Dazzo aveva irosamente mandato a qual paese tre vescovi in visita pastorale. Di altre vicende si era meno sicuri. Probabilmente erano state ritoccate  e arricchite già negli oziosi ed esilaranti racconti che Mino Zanettin faceva da anni a Meneghello durante i suoi soggiorni estivi.

Malo come Dublino di Joyce? Il risvolto di copertina diceva così, adombrando l’idea di un romanzo-mondo, di un microcosmo sapientemente proiettato nell’universo forbito della letteratura.

All’inizio la ricezione di “Libera nos a malo” fu modesta. La critica italiana in parte se ne accorse, in parte no. In effetti era un romanzo sghembo. Non aveva nulla a che fare con la narrativa di stampo neorealistico, ma c’entrava poco o nulla anche la letteratura di impronta sperimentale. Era impresa vana anche confrontare Meneghello con i vicentini Piovene o Parise. In Meneghello non c’era traccia delle tortuosità esistenzialistiche di Piovene, come gli era estraneo il “mood” vagamente picaresco di Parise. Il libro di Meneghello era veramente un “hapax”, frutto di un’intelligenza acuminata e di un retroterra  culturale del tutto anomalo: la cultura filosofica e linguistica anglosassone, la rivisitazione antiretorica della letteratura italiana, la memoria locale trasformata in epicedio ora struggente ora grottesco.

 

Gianni Giolo

 

I PIU’ GRANDI  NOMI DELLA CULTURA ITALIANA RICORDANO LUIGI MENEGHELLO

 

Per la morte di Luigi Meneghello si è mobilitata tutta la stampa nazionale e internazionale e i più bei nomi della cultura ufficiale italiana. Per il Corriere della Sera hanno scritto Cristina Taglietti, Paolo Stefano, Andrea Zanzotto, Cesare Segre, per il Corriere Veneto Cesare De Michelis,  Emanuela Da Ros, Matteo Giancotti, Angela Pederiva, Efrida Ragazzo,  per la Repubblica Franco Marcoaldi,  Ilvo Diamanti, Dario Pappalardo, per la Stampa Mario Baudino, Ferdinando Camon, Gabriele Vaucis, per l’Unità Stefano Guerriero, Giulio Ferroni,  per il Giornale Silvio Ramat, per il Gazzettino Sergio Frigo, Rolando Damiani, Giuseppe Pietrobelli, Giancarlo Galan, Mario Rigoni Stern, Massimo Cacciari, Fabio Fazio, per il Giornale di Vicenza Fernando Bandini, Marco Paolini, Maurizia Veladiano, Alessandro Mognon, Paolo Lanaro, Bepi De Marzi, Antonio Stefani, per il Vicenza Enrico Hüllweck e Francesca Boccaletto.  Cominciamo dall’amico Fernando Bandini: “Luigi Meneghello è mancato improvvisamente. Non si sono state apprensioni per un suo ricovero in ospedale, per una sua agonia. La sua immagine, che da anni occupava i nostri schermi, è svanita come improvviso black-out, non vedremo più il suo viso, quel sorriso ironico col quale annunciava le sue verità, non sentiremo più le sue parole. Un grande scrittore se ne va, ma come utti i grandi scrittori ha il privilegio di lasciare dietro di sé, a futura memoria, i libri coi quali ha adempiuto a un suo compito. I libri fino ad oggi sembrano garantire una più certa sopravvivenza rispetto ai nostri strumenti mass-mediatici: intendo nastri registrati, dischetti, files e roba simile. Sono ancora le parole stampate sulla carta ad avere la meglio sulla morte. Meneghello si è rivelato come scrittore piuttosto tardi. Aveva quarantuno anni quando nel 1963 uscì “Libera nos a malo” rivelandolo di colpo come un grande scrittore. La volontà di dire doveva indubbiamente aver covato dentro per lunghi anni, con meditazione e prove affidate alla copiosità di carte segrete. Quanto Meneghello ha pubblicato costituisce infatti la punta di un iceberg che emergeva da un fondo di vaste e sommerse scritture. Scriveva con pennini infilati alla cannuccia, come nei tempi antichi quando andavamo a scuola. Esercizio simile, e insieme opposto, a quello di D’Annunzio che invece preferiva auliche penne d’oca. Ma la materia prima era l’inchiostro, immagine naturale del deposito della memoria. Quando “Libera nos a malo” uscì, il suo alto livello di scrittore fu unanimemente riconosciuto. Ricordo fervidi consensi di Bassani, di Bo, di Ferrata. Ma quell’opera si distingueva completamente da quello che era allora il panorama della narrativa italiana. E primamente perché non era un romanzo (e non lo furono mai nemmeno le sue opere successive), Meneghello ha sempre posseduto una naturale idiosincrasia per il genere definito romanzo, un prodotto con una trama artificiale che talvolta, però, si pretende specchio della realtà.  Non ha mai amato il neorealismo di moda nemmeno negli anni 50-60, non ha mai amato più di tanto Pavese e Vittoriani, e tanto meno Moravia. Il suo genere pretendeva la presa diretta con la realtà, non la elaborata invenzione romanzesca, e questo comportava una presa diretta e responsabile con l’io che racconta, con la sua testimonianza e la sua memoria. In “Libera nos a malo” e nelle cose che scriverà, Meneghello è singolarmente vicino agli scrittori protonovecenteschi della rivista “La Voce”, anch’essi diffidenti nei confronti del romanzo, che affidano la scrittura prosastica ai frammenti della memoria commossa e nei quali la sutura del testo è affidata alla durata della coscienza; scrittori come furono Slataper e Jahier. Quest’ultimo autore di prosimetri (testi cioè che fondono nel racconto prosa e versi). Ma anche Meneghello ha scritto i suoi prosimetri, come “Pomo Pero”. Dove la struttura versale non è però elegiaca espansione dell’io ma vi vengono affabulati gli archetipi della lingua-dialetto, offerti quasi come ombra dell’essere”.

Paolo Lanaro ha scritto: “Prima o poi viene un momento in cui sul rumore della parole prevale il silenzio. Gigi amava le parole, la loro profondità, il loro  impeto, la loro sottigliezza, la loro luminosità. Aveva costruito nel corso dei decenni un mondo di parole scintillanti doveva ci aveva permesso di entrare e di sostare lasciandoci alle spalle le fatiche, le ubbie, i malesseri quotidiani. Lui le faceva balzare dalla pagina con sapienza arguta, le trattava con elegante puntiglio. A volte sapeva trarre meraviglie perfino da parole tozze, ottuse, sformate. E questo lo sanno fare solo le persone geniali. A me è sempre sembrato che gli interessasse scoprire, se mai è possibile, quella trama segreta che lega le parole alla nostra esperienza. In effetti non ne sappiamo nulla. Sospettiamo che le aprole non siano solo strumenti per comunicare ma siano collegate in qualche modo a movimenti abissali della  nostra psiche, se non addirittura a certe configurazioni del nostro Dna. Per Gigi le parole erano, prese una per una, un racconto, una storia da seguire passo dopo passo. Lo si intuiva quando chiacchierava che le parole possedevano per lui una precisione sacrosanta, ma nello stesso tempo un alone che le proiettava chissà dove, sicuramente assai al di là delle nostre intenzioni”.

Cristina Taglietti sul Corriere ha scritto: “Le sue radici, venete e italiane, Meneghello le ha celebrate nei suoi libri, a cominciare da quello che viene considerato il suo capolavoro, “Libera nos a malo”, rivisitazione autobiografica, tra tenerezze umorismo, del paese della sua infanzia con uno stile popolare e colto, raffinatissimo e innovativo, perché, come ha scritto Maria Corti, “ogni pagina è passata per un purgatorio di rifacimenti”. Quell’impasto linguistico (peculiare anche di “Pomo pero”) denso di umori, che nasce dal dialetto e si serve di neologismi, modi gergali, invenzioni non è mai fine a se stesso, ma ha il compito preciso di far intravedere un mondo e un’epoca, quella provincia veneta tra gli anni ‘30 e ’60, votata all’estinzione. La ricerca linguistica è una spia del perfezionismo di Meneghello, capace di rimproverarsi, a proposito della Resistenza, cui partecipò, anche di non aver saputo “fare una guerra semplice e felice”.

Cesare Segre ha scritto: “Aveva appena festeggiato la “laurea honoris causa” dell’università di Palermo e si preparava a ricevere dalle mani del Presidente della Repubblica il premio Feltrinelli per la narrativa. Ma mentre i riconoscimenti, tardivi, crescevano in misura esponenziale, Luigi Meneghello è morto d’improvviso, in gloria. Vi saranno certo necrologi e celebrazioni, ma il modo migliore di ricordarlo sarebbe rileggere qualche suo libro. Perché, scrittore del tutto anomalo, sfoggia alle classificazioni: era un grande saggista che, con una forma singolarissima di biocentrismo, raccoglieva come in una rete i frammenti di realtà passati per la mente: li analizzava, li commentava, li discuteva”.

Emanuela Da Ros per il Corriere Veneto ha intervistato Andrea Zanzotto: “Meneghello considerava l’infanzia e il linguaggio vere e proprie miniere dove rinvenire e recuperare le radici dell’identità e unità della persona. Di fronte al disorientamento attuale le sue indicazioni rappresentano un’eredità da non disperdere e dissipare”.

Cesare De Michelis ha scritto: “Meneghello è stato scrittore apparentemente discontinuo e difficilmente inventariabile nella classificazione dei generi: quando uscì il suo primo libro “Libera nos a malo”, per un attimo sembrò l’opera unica di un geniale dilettante, ma l’impressione venne subito smentita da “I piccoli maestri”, usciti l’anno successivo; una seconda coppia di libri che doppiava la prima, uscì dieci anni più tardi “Pomo pero”, “Fiori italiani”. Presentando “Libera nos a malo”, Giorgio Bassani scriveva nel risvolto: “Il frammentismo, l’assenza di ogni struttura, che distingue questo strano opus, non è il segno, una volta tanto, di una sostanziale impotenza a narrare, ha un senso preciso, invece: insomma esprime. Il procedimento è stato sempre lo stesso, la sineddoche, ossia la parte per il tutto. All’inizio c’è un particolare, un dettaglio che riemerge improvvisamente dalla memoria, lo scrittore piano piano gli dà forma compiuta, lo colloca nel tempo e nello spazio, lo arricchisce di altri elementi sottratti all’oblio, ricostruendo con meticolosa pazienza nella sua interezza. In sé l’episodio apparirebbe dapprima insignificante, qualsiasi; eppure, invece, si rivela un segnale da interpretare,  un enigma da sciogliere. Quando, finalmente ricostruito, riempie la pagina, si svela da sé, illumina nella sua definitezza ampie zone circostanti, rende evidente il mistero che racchiudeva ed esprime sinteticamente il sentimento che lo ha costretto a venir fuori dal buio della dimenticanza”.

Stefano Marcoaldi su Repubblica ha scritto: ““Libera nos a Malo” (il suo libro più amato e famoso) esce nel 1963 e spariglia le carte della letteratura italiana: non rientra nella neoavanguardia, non è figlio del neorealismo. E anche i tentativi di appaiarlo a certa letteratura dialettale lasciano il tempo che trovano. Da ultimo, non è un romanzo, né un antiromanzo. A farla breve, Meneghello si inventa una cosa sua e solo sua, attraverso una lingua fantasiosissima e pervasa da sprazzi di esilaranti comicità, che vive di continui circocircuiti tra l’italiano, il dialetto vicentino, l’inglese. Se proprio si volesse cercare a  tutti i costi qualche debito culturale, di certo Meneghello non lo contrae dalla cultura italiana del tempo (da cui si era allontanato copn una forte dose di “veleno polemico”), ma semmai dalla poesia anglosassone. Non a caso Fernando Bandini definirà “Libera nos a malo”, molto pertinentemente, “un poema filosofico”.

Ilvo Diamanti ha scritto: “”Libera nos a malo” è fra  le letture che mi hanno educato a capire le virtù e i vizi del profondo Veneto. Raccontato con affetto pari alla ferocia. Con acume e ironia. E poi quel linguaggio straordinario. Raffinato e suggestivo, al tempo stesso. Meneghello ha imposto il veneto come lingua universale. Un genere letterario colto, che si legge nelle scuole. Mentre il patriottismo vocalista che governa le istituzioni, pretende di imporre una “lengoa veneta” illeggibile e incomprensibile”.

Mario Baudino nella Stampa ha  scritto: “Il suo esordio era parso quasi una provocazione, aveva indignato alcuni, come Giovanni Comisso, ed entusiasmato altri, come Giorgio Bassani che impose la pubblicazione di quel libro a un Feltrinelli un po’ riluttante (ora il suo editore è Rizzoli, mentre Mondadori gli ha appena dedicato un Meridiano). Con quel libro  lo scrittore vicentino aveva anticipato in qualche modo già sopravanzato le avanguardie, mescolando storia e saggio dentro la vita si tutti i giorni, i ricordi della sia adolescenza, la minutissima rete di rapporti paesani: e soprattutto il dialetto di allora. Bassani soleva dire: “Solo il passato è bello”. Meneghello non era d’accordo. Ci spiegò una volta, parlando del suo ritorno in Italia dall’Inghilterra, dove ha sempre insegnato all’università di Reading, che “per certi aspetti c’è qui da noi una modernità più invasiva che non in Gran Bretagna. Ma per altri resiste ancora l’arcaico. Guardi i giovani della zona: sono elegantissimi, non ha più nulla in comune con i popolani di una volta: Poi li ascolti, e scopri che se è cambiata la lingua, è rimasta tale e quale l’emissione della voce, la stessa dei contadini d’un tempo”.

Ha scritto Ferdinando Camon: “Meneghello è uno scrittore grande, ma di un tempo (possiamo anche dire: una civiltà) che non c’è più. Ma non era un mondo piccolo, e nemmeno separato. Oggi molti diranno che Meneghello è lo scrittore della vita di provincia. E’ un giudizio impulsivo e intimamente sbagliato. Perché lo fa uno scrittore appartato, separato, piccolo: lui nella provincia, nel dialetto, tra i piccoli uomini e le piccole storie, noi nella città, nella lingua italiana, tra i grandi uomini e la grande storia. Non è così. Meneghello non è uno scrittore di provincia, del dialetto per i parlanti dialetto, del paese veneto per i veneti. Non fa una letteratura a parte. Era l’opinione che ne aveva Comisso. In realtà attraverso il dialetto Meneghello recupera una civiltà, una società, costumi, riti, religione, sesso, tutto. I suoi libri sono miniere.  Da una filastrocca deduce il paese, da un paese una civiltà. Non è filologia, è antropologia”.

Ha scritto sul Giornale Silvio Ramat: “Affabulatore, anche orale, di genio e di rango, più di quel che non appartenga alla stirpe dei narratori di professione. Meneghello racconta del proprio microcosmo originario ( a cominciare da un esordio che non fu precoce) il costume e la grammatica, proiettando su un medesimo piano e liberando in un medesimo campo di venti la variegata specificità espressiva di un idioma e il cammino che vi compiono i suoi locatori. Dei quali si rievoca in “Pomo pero” e in “Fiori italiani” una formazione – pedagogica e sentimentale – che include subito la difficile convivenza tra l’italiano della scuole e il dialetto delle famiglie. Nel recente Meridiano di “Opere scelte” questo itinerario lo possiamo seguire agevolmente: dopo di che, si procede fino a quel punto decisivo che sono “I piccoli maestri”, ingorgo e (parziale) snodo tra un lieve clima goliardico e l’urgere della Storia da fuori”.

Ha scritto nell’Unità Giulio Ferroni: “A Palermo il suo discorso di laurea è stato scintillante, vitale, insieme ironico e delicato: in un ideale abbraccio tra il Nord e il Sud. Una vitalità, una passione, una generosità che lo hanno accompagnato fino alla morte, all’ultimo inevitabile “dispatrio”: avvenuto quasi simbolicamente dopo un viaggio al Sud, dopo una nuova definitiva affermazione di curiosità, di entusiasmo”.

 

Gianni Giolo

 

 

                                               

 

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