Gianni Giolo
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BEPI DE MARZI

INTERVISTA SUL CASO BEDESCHI

 

Benito Gramola nel suo libro su Giulio Bedeschi dice di aver chiesto invano di parlare con i parenti del grande scrittore per aver notizie sul famoso “buco nero” della sua vita che va dal 1945 al 1963,  anno della pubblicazione del celebre libro “Centomila gavette di ghiaccio”. Bepi De Marzi si è messo in contatto con noi perché teme che il libro di Gramola e la nostra recensione getti una macchia sul passato della figura dello scrittore. Nel frattempo Bepi (che ha scritto la lapide nella casa di Arzignano dove è nato Bedeschi, casa demolita e tuttora è in fase di ricostruzione ma che successivamente la ospiterà di nuovo) ha parlato con la vedova di Giulio e la figlia di Beppe  (morto in novembre)  che  - come ci confida – “sono preoccupate per ciò che potrebbe seguire a un loro intervento nei ricordi”. Abbiamo intervistato perciò il grande musicologo sul suo passato di “figlio della lupa”e di un repubblichino. “Il papà – ci dice  Bepi -  a quarant’anni aderì alla Repubblica di Salò” . “Dopo la guerra” -   racconta -  “in casa leggevamo, oltre a montagne di libri, soprattutto L’Uomo Qualunque, Il Secolo e Il Borghese”. Del padre, collaudatore e tecnico della Pellizzari, ha ricordi vivissimi, come quando, a Roma, gli ha fatto conoscere Almirante dopo un concerto d’organo nell’Auditorium del Gonfalone: “Siamo andati a cena in Via Giulia dopo il mio concerto, e di Almirante, oltre all’affabilità e all’acutezza dei giudizi, mi è rimasta impressa una frase che ogni tanto ripeto agli amici senza più la dignità degli ideali, soprattutto a quelli che si sono venduti o che accettano la divisione dell’Italia”. Ha scritto un canto, parole e musica, com’è sua consuetudine, per i reduci della Divisione Alpina Monterosa, come dire le penne nere della Repubblica di Salò, mai riconosciute dall’Associazione Nazionale Alpini. Le parole della seconda strofa, con musica piuttosto solenne, oseremmo dire marziale, da inno di combattimento, dicono: Quando della Patria si minaccia la divisione, la nostra Fede, la nostra Unione ridà l’Onore alla Memoria. E nella nostra vicenda umana di combattenti mai onorati: portiamo sempre la Penna Nera! portiamo sempre la Penna Nera! Monterosa, Monterosa, Monterosa, noi siamo alpini!

E con molte voci del suo coro va ogni anno a Boario terme all’Adunata degli ultraottantenni rimasti. Va sottolineato che, per più di vent’anni, il presidente dei Crodaioli è stata la nobile figura del notaio Mario Pagani di Arzignano, alpino della Monterosa, appunto, che la Sezione ANA di Vicenza ha annoverato tra i suoi vicepresidenti. “Poteva fare, e ottimamente, anche il presidente”, dice, “ma c’era quell’incomprensibile, assurdo impedimento nazionale”.

Bepi De Marzi, com’è suo costume, non si nasconde dietro a niente: è lui, completamente lui, con la sua poliedrica personalità, con le sue apparenti contraddizioni che non l’hanno mai preoccupato più di tanto, con il suo indiscutibile coraggio, con il suo profondo spirito anarchico, con le sue fobie (curiosa e quasi unica è quella per tutti i monili), con la sua insofferenza per la cultura celtopadana, alla quale dedica pagine ironiche e articoli pubblicati qua e là con il titolo attuale di “Devoussión”.

Siamo andati a trovarlo ad Arzignano, dove vive in una vecchia casa in affitto sulla collina di San Pietro, nella frazione di Castello.

- Perché proprio quassù?

Perché dentro le mura di Castello sono nato. È stato mille anni fa, in maggio, durante una burrasca di quelle dette “dei cavalieri”, i bachi da seta. Appena nato, ed era notte fonda, mio nonno Giuseppe, fornaio, mi ha battezzato col suo nome perché ero, come si dice, più morto che vivo. Poi, come mi hanno raccontato, ho fatto un rumorino impertinente e la levatrice ha detto in dialetto “el more, no se ‘l fa cussì…”.

- Dobbiamo crederci?

Mi pare di sì, perché la suonatina, che è la massima irriverenza verso il mondo che mi accoglieva prematuro, in anticipo di quasi tre mesi, mi è rimasta come una specialità trasferita al modo di pensare e di agire; e il dialetto della comare me lo porto dietro come una specie di condanna.

 - È difficile pensare che per De Marzi la lingua veneta sia un peso, una condanna…

Mi riferisco alle mai concluse battaglie con i cultori della “éngoa”, quelli delle radici, quelli che scrivono “raixe”. E che Dio li perdoni.

- Nell’ultimo disco dei Crodaioli, il nono, uscito da poco, c’è un intero settore dedicato ai canti ispirati dai libri di Giulio Bedeschi. Bedeschi, allora, poi Rigoni Stern e la Russia. È ancora il tempo delle drammatiche memorie? Non trova che si debba stendere su tutto, ormai, il velo del tempo?

No, non dobbiamo dimenticare: dobbiamo trovare invece l’equilibrio e la fraternità. Mario Rigoni Stern mi ha dato qualche anno fa un testo che racconta l’Ortigara. La guerra non finirà mai di stupirci, di angosciarci per la sua totale follia. Il testo di Rigoni Stern, che lassù chiamano Mario Stern, e a me piace molto dire così, parla delle pernici bianche che tornano a volare sull’Ortigara dopo la disperazione dei “morti di fame contro morti di fame”.

- E Bedeschi?

Di Giulio Bedeschi sono diventato amico nel 1963, attraverso Carlo Geminiani che in “Centomila gavette di ghiaccio” aveva trovato ispirazione per i testi di “Joska la rossa” e “L’ultima notte degli alpini”, due canti che hanno avuto molta diffusione tra gli alpini e tra i cori, anche all’estero. Ritengo che il libro di Bedeschi sia una delle più forti denunce contro la guerra e, insieme, contro il fascismo che l’ha voluta. Basti pensare alla frase finale, quando un ferroviere al Brennero dice ai reduci della Ritirata di Russia: “Che alpini o non alpini! Ma vi vedete? vi vedete, sì o no, Cristo, che fate schifo?”.

- Perché Carlo Geminiani?

Perché lavorava come direttore della pubblicità alla Pellizzari di Arzignano. Aveva realizzato dei manifesti, dei cartelloni pubblicitari diffusi in tutta Italia, che ora sono esposti nei musei d’Arte moderna in giro per il mondo. Era amico di Beppe Bedeschi, il fratello di Giulio, che era stato strettissimo collaboratore di Antonio Pellizzari sia per l’Officina che per la Scuola di Arzignano, una creazione artistica e culturale subito invidiata dalle grandi città, additata al mondo, insieme alla Olivetti di Ivrea, come modello di nuovo umanesimo. Carlo Geminiani, romagnolo, era già passato da Arzignano, nel 1944, con una formazione della Repubblica di Salò.

- Amici di tutte le tendenze, insomma.

Neanche per idea: io sto solo con le persone sincere. La mia formazione parte da lontano ed è piuttosto complessa. Mia mamma era di Milano, milanese autentica. Io, ora, pure avendo visto centinaia di bellissime città nel mondo, vorrei abitare a Milano con tutto il cuore, anche se c’è troppa Comunione e Liberazione, gli affaristi della particola. Mio papà, come ripeto spesso, è stato un instancabile ed entusiasta, ma anche inquieto, viaggiatore per ragioni di lavoro. La musica come mestiere è stata scelta da mia mamma. Avevo uno zio paterno che faceva il pianista. Un altro zio suonava il violino. La curiosità totale mi è stata trasmessa da tutti e due i genitori. Anche la fede profonda, ma non sottomessa o bigotta. Quando, dopo la guerra, gli ex di Salò si trovavano in qualche adunata, magari a Predappio, mio papà veniva controllato dai carabinieri. E mi vien da ridere perché, lui che è stato aviatore e marconista di bordo, non ha mai nemmeno sfiorato un’arma, neanche un fucile da caccia. E i suoi fratelli, col padre fornaio e liberale, erano tutti cacciatori.

- Come si collocherebbe in questo momento? Se ne raccontano tante su di lei… E com’era la frase di Almirante?

Ora sono come sono stato sempre: libero, insofferente, credente. Quando sbaglio so chiedere scusa, come farò, per ciò che ho stupidamente detto di loro, con i seminaristi vicentini e con quei preti che hanno scelto di stare con gli ultimi, con i poveri.

Almirante, quella sera, disse: “Noi non ci lasciamo prendere dalla nostalgia e, soprattutto, dato che siamo in pochi, non ci vendiamo al miglior offerente”. E a pensarci mi viene l’angoscia. 

- Perché l’angoscia?

Mi angosciano i nuovi politici: hanno quasi tutti l’aria arrogante delle mezze figure, dei gerarchetti. Per noi vicentini viene facile la nostalgia dei Rumor, degli Oliva, dei grandi che hanno fatto la storia della democrazia. Mandavamo a Roma dei politici preparati, molto competenti, degli statisti. Ora vanno giù i cortigiani. I cretini delle croci uncinate, i caporaletti che militano nel partito che si chiama Alleanza Nazionale e sono alleati di chi l’Italia la sta frantumando. Io, il comunismo, l’ho visto nell’Europa dell’Est: una storia tremenda. Ora, cercare i comunisti in Italia, è come cercare i reduci delle campagne napoleoniche. Dicono che sono cattocomunista.

- Andrà all’adunata degli alpini di Asiago?

Sono stato alpino paracadutista e ho fatto la Scuola Militare Alpina. Alle adunate non vado da tempo perché non sopporto di dover marciare davanti alle cosiddette autorità chiamate sul palco. Mi piacerebbe sfilare a passo libero, con gli amici, con le famiglie, magari cantando davanti a Rigoni Stern, alla gente dell’Altipiano, ai veri montanari, magari anche davanti all’arciprete del duomo. Chiameranno invece quelli che arrivano da Roma in elicottero che poi, dopo aver visto sfilare davanti a loro gli uomini più generosi del mondo, torneranno a tramare e a votare per dividere l’Italia, che noi alpini chiamiamo Patria.

 

intervista a cura di Gianni Giolo

 

 

 

Gianni Giolo