Gianni Giolo
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TEOFILO FOLENGO

IL FRATE ERETICO ENTRA UFFICIALMENTE  IN VATICANO

 

Teofilo Folengo, detto Merlin Cocai (1491 – 1544), monaco benedettino ritenuto ingiustamente un frate amante della buona cucina gaudente e scapestrato è entrato ufficialmente anche in Vaticano. Lo ha annunciato Otello Fabris all’inaugurazione nel convento di Santa Croce di Campese (un romitaggio creato dall’ordine per i frati in odore di eresia) dell’anno folenghiano degli amici di Merlin Cocai 2006-2007. Per la prima volta  era presente il vaticanista Franco Lanza che ha incoronato del sacro alloro, insieme al prof.  Giorgio Bernardi Perini e l’assessore alla cultura di Bassano Fabris, il busto del sommo poeta e ha  dedicato al poeta maccheronico  una splendida pagina dell’Osservatore Romano: “Non siamo i primi – ha scritto Lanza – a rilevare un dato di fatto: la sovrabbondanza attuale dei manuali gastronomici nelle vetrine dei librai. I libri di cucina escono dalla prassi della quotidianità ed entrano nelle raffinate officine della specializzazione. Le fritture, i pesci, i molluschi, i crostacei, i funghi, i tartufi hanno i loro celebratori, i loro selezionati aficionados, le loro misteriose ricette che ne rendono il consumo simile a un rito iniziatici. Ed è cresciuta una letteratura specializzata che investe non solo un mercato e un costume, ma anche un modo di vedere il mondo: filosofia del corpo (si è detto) che rispecchia il materialismo teorico e l’edonismo più o meno epicureo del nostro secolo di mercati e di speculari diete. La scienza dell’alimentazione ambisce a divenire l’arbitra della vita, la nonna di tutti i comportamenti a cominciare dall’abito che indossiamo per giungere al controllo della linea che ci caratterizza come bipedi ambulanti razionali, creature grasse e magre, temperamenti accesi e remissivi, carnivori e vegetariani. Ma il cibo è anche cultura, cioè modo di essere al mondo, di proporre noi stessi in una civitas che ha fatto della tavola imbandita un simbolo dell’insegnare e dell’apprendere le idee.  Convito è per definizione la s scienza, e il chiamare altri alla partecipazione, alla discussione, all’approfondimento dell’episteme o conoscenza universale per concetti è atto di civiltà, che supera la doxa  cioè l’opinione individuale soggetta alla mutevolezza delle impressioni. Convito è, in grado massimo, metafora dell’esperienza cristiana: sia perché si può indicare con questa il sacrum convivium dell’Eucaristia, sia perché la mistica ha il proprio vertice nel Corpo mistico in cui vivono e vivranno in terno quanti sono stati redenti dal sangue di Cristo. Abissale è dunque la distanza che separa l’uno dall’altro i mille predicati del verbo edere: eppure tutti possono venire inclusi nella gamma splendida ed iridescente della sua dizione volgare che è manducare. E la ritualità del desco fa sì che in certi cibi della grassa Padania, l’aristocrazia e  popolo convergano allegramente, e che i notissimi macheroni “quoddam pulmentum farina, caseo, botiro compaginatum” cioè un impasto grossolano e rustico messo insieme con farina formaggio e burro, siano sinonimo di buongusto e addirittura di poesia. Ars ista poetica nuncupatur Ars macaronica:  ecco perché le celebrazioni folenghiane del 1991 (V centenario della nascita di Teofilo Folengo), quelle del festival-letteratura di Mantova del 2004 e il recente incontro di Cittadella sul poeta editore Bino Rebellato, spentosi dopo aver speso lunghe fatiche di studio per tradurre, postillare, divulgare i testi folenghiani, hanno ripresentato il fenomeno maccheronico in una luce nuova, che fa giustizia di molti giudizi frettolosi o parziali sul poeta mantovano. Infatti la macaronea che come noto conserva del latino la grammatica la sintassi e la metrica, usa il contrario un lessico volgare, goliardico, dissacratore e burlesco, di forte carica espressiva, e va certo situata fra le forme letterarie anticlassiche, anticulturali, antiscolastiche che mettevano in crisi la presunzione umanistica di riattualizzare l’antico scimmiottando Omero e Virgilio. Ma tale gioco scapigliato, messo in opera dalla maschera ambigua di Merlin Cocai va molto al di là del chiaroscuro caricaturale che si gabba dei falsi sapienti. Come tutti gli anti-letterati del Cinquecento, anche Merlin-Teofilo è letteratissimo. Ma non ozioso, non indifferente ai problemi del tempo: la sua satira degli ecclesiastici non tocca i temi de fide se non come sollecitazione ad una riforma disciplinare che di fatto era stata impostata ai suoi tempo da Adriano VI, ma avrebbe preso slancio soltanto vent’anni dopo a Trento con Paolo III, quando il poeta si era spento da un anno nel convento benedettino di Campese all’ingresso della Val Sugana. Nel frattempo s’era consumato l’orrendo saccheggio di Roma ad opera delle bande del Frundsberg. Scandalo e frustrazione per tutti, compreso Teofilo che era giunto nella città eterna al seguito di Camillo Orsini per un’inutile difesa dei castelli di famiglia. La tesi che vede nella Macaronea un appoggio coperto alla riforma luterana è stata ormai demotivata dalla critica, mentre ha ripreso quota quella di una insoddisfazione interiore, di una protesta interna e non estranea alla Chiesa. Gli studiosi più recenti, da Emilio Faccioli a Giovanni Pozzi, da Otello Fabris a Giorgio Bernardi Perini, da Giulio Cattin a Rodolfo Signorini, hanno arato le pagine sibilline del Baldus e del Caos del Triperuno mettendo in luce i fattori più illuminanti dell’invenzione folenghiana che sono da una parte l’umanesimo filologico di Erasmo (maestro ideale, non tuttavia storico) dall’altra l’umanesimo fantastico di Ariosto, che gli fu amicissimo e condivise con lui l’equilibrio e la serenità della forma letteraria perfetta. Come poi questa condizione possa ottenersi attraverso la scelta dei cibi può meravigliare soltanto chi non rifletta sulla riscoperta della natura in quanto depositaria dei segreti che concorrono non solo alla funzionalità degli organi ma anche alla loro sublimazione nell’arte. Le sorprese che scattano dalla combinazione delle parole in fondo non sono minori di quelle che ci offre la mistura ingegnosa delle salse, dei pigmenti, dei distillati e soprattutto dei vini. A Campese è tuttora fiorente un’associazione  Amici di Merlin Cocai che ha sede nello stesso convento benedettino; ed a Bassano un ormai celebre Macaronicorum Ristoratorum Collegium organizza periodiche cene “storiche” su ricette desunte dalle opere folenghiane. La Macaronea col suo sorriso è maestra di vita in quanto crescita della felicità naturale soccorsa e in un certo modo filtrata, impreziosita, arricchita dall’intelligenza: che può sempre dominare la realtà servile e pulcinellesca delle taverne con il funambolismo aristocratico degli enigmi dei calembours,delle maschere, del contrappunto musicale e specialmente di quegli ossimori che celano il mistero quotidiano della divina coincidentia oppositorum”.

 

Gianni Giolo

 

 

 

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