Gianni Giolo
Home > Scheda bibliografica  > Traduzioni > La vita felice

La vita felice

Presentazione

Felicità: il più citato dei desideri umani


Felicità e Fortuna
“E stata lei a insegnarmi come la felicità si possa conoscere e vivere anche quando il mondo ti ringhia addosso”: cosi scrive Alberto Bevilacqua nel suo libro Lettera alla madre sulla felicità, un’espressione che sintetizza il tema di fondo del dialogo di Seneca La vita felice, perché la felicità per lo scrittore latino non ha
confini, non soffre limiti, non trova ostacoli nemmeno nella Fortuna, la grande divinità del mondo ellenistico e dell’uomo romano della prima età imperiale che non crede più negli dèi, ma esperimenta sulle sue ferite sanguinanti la potenza e la prepotenza di questa forza cosmica e universale che si abbatte sugli eventi e sulla storia.
  Questa dea, che Dante rappresenta come un’intelligenza angelica ministra e guida delle cose umane, torna a rivivere, con plastica evidenza, nelle pagine di Machiavelli che, con una metafora che ha il sapore del quotidiano e del popolaresco, ora la paragona a un fiume rovinoso e ora a una donna. Gli uomini, osserva l’autore del Principe, sono felici mentre concordano con la Fortuna, infelici quando discordano. “Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la Fortuna è donna... e però sempre, come donna, è amica dei giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano.”
   L’uomo ideale del Cinquecento combatte, provoca, cerca di far sua la Fortuna, volubile e capricciosa, come una donna che è difficile ‘tener sotto’, ma l’uomo romano del primo impero, invece, come apprendiamo dalle pagine sofferte e drammatiche di quest’opera, è colui che “lieto della virtù, disprezza le cose che provengono dal caso” (cap. IV).

Felicità e Virtù  


La virtù è il solo bene dell’uomo romano, l’unico bene che la Fortuna non può togliere né portar via: essa può strappare all’individuo le sue cose, le sue sostanze, i suoi averi, le sue ricchezze,  ma non la virtù che è insita nella sua natura e che si identifica con lui stesso. 
   Nel capitolo XXVII il saggio è paragonato, con un’immagine titanica e grandiosa, a uno scoglio battuto dai flutti del mare in tempesta, che lo flagellano da ogni parte senza riuscire a smuoverlo e a logorarlo. Solo la virtù crea l’uomo perfetto, e la sola virtù perfetta fa l’uomo felice, perché essa rende l’anima più forte, più alta, più grande, e basta, anzi sovrabbonda alla felicità della vita. Nulla può mancare all’uomo posto oltre il desiderio di tutte le cose. “Se mai abbiamo la forza di sollevarci” prosegue il filosofo “da questo fango alle sublimi altezze della sapienza, ci attendono la tranquillità dell’animo e l’assoluta libertà.”
   Un secolo dopo Plutarco avrebbe detto:  “Fortuna e Malvagità gareggiano a rendere infelice la vita umana”, ma Seneca legge la vita non con gli occhi dello scrittore che vuole farne emergere l’essenza drammatica, ma con quelli del filosofo, dell’amante della saggezza: bene e male esistono solo all’interno, non all’esterno dell’uomo. Così, nel capitolo IV può dare la più completa ed esaustiva definizione dell’uomo felice: “...colui per il quale non esiste altro bene o altro male se non un animo buono o malvagio, colui che coltiva l’onestà e si contenta della sola virtù, che non si lascia né esaltare né abbattere dalle vicende della sorte, che non conosce bene maggiore di quello che egli può dare a se stesso e per il quale il vero piacere consiste nel non curarsi dei piaceri”. Felice è dunque colui che coltiva l’onestà e si contenta della virtù. Ritroviamo lo stesso atteggiamento mentale e spirituale di Seneca in Bertrand Russel, che così conclude l’opera La conquista della felicità: “La vita felice è l’equivalente di una vita buona”. La sapienza moderna si sposa con l'antica e, per chi si impegna a praticare questa via, la conseguenza è “un’immensa gioia duratura e inalterabile, la pace, l'armonia dell’anima e l’elevazione unita alla dolcezza” (cap. III).

Felicità e Tempo


“Nulla invecchia quanto la felicità” ha detto Oscar Wilde in uno dei suoi più pregnanti Aforismi. Seneca dedica molte pagine alla confutazione di una tesi come questa e soprattutto del concetto epicureo e popolare di piacere. Il piacere non è il divertimento momentaneo e passeggero dei sensi, ma la felicità duratura e stabile dell’anima impegnata nel proprio perfezionamento morale. Sottolinea il filosofo: “Il sommo bene è immortale, non viene meno, ignora la sazietà e il rimorso: una menteretta non si volge indietro, non odia mai se stessa, e non cambia nulla della sua vita, che è la migliore; il piacere invece cessa proprio quando diletta di più, e non ha molto spazio: perciò se ne va subito, viene a noia e si fiacca dopo il primo slancio. Non può mai esserci nulla di stabile in ciò che, per sua natura, è in continuo movimento, così non si può trovare alcuna consistenza in tutto ciò che viene e va rapidamente e si consuma nell’uso stesso; perché, ciò che è cosi strutturato, raggiunge la meta quando viene meno e, nell’attimo stesso in cui incomincia, ha già incominciato a esaurirsi” (cap. VII).
   “Il saggio viye lieto del presente e senza pensiero del futuro” (cap. XXVI). È il famoso ‘vivi l’oggi’ (carpe diem) oraziano, adattato alla filosofia stoica e alla nuova realtà dell’impero, cui fa da contrappunto il ‘vivi adesso’ (protinus vive) di Seneca, che cita una sentenza oracolare di Virgilio: “I giorni più belli sfuggono
per primi ai miseri mortali”. (Come non ricordare la ripresa di questo motivo poetico ed esistenziale da parte del persiano Omar Khayyam: “Passa la vita, misteriosa carovana: rubale il suo attimo di gioia!”?) Il mondo classico è la civiltà dell’oggi, del fulgore dei giorni felici (candidi soles) di Catullo, perché il saggio possiede solo il presente, dato che il passato non c’è più e il futuro è nelle mani della Fortuna o della morte. L’incertezza del futuro, che spingerà Tacito a storicizzarla facendo balenare nelle sue Storie oscuri e minacciosi destini incombenti sull’impero (urgentibus imperii fatis), induce il sapiente a concentrarsi nel presente e a bandire dal proprio orizzonte la speranza: “Cesserai di temere, se cesserai di sperare”.
   L’uomo di Seneca, arroccato all’oggi, si difende dal tempo e dalla fuga incessante degli anni annullandoli nella sua coscienza. Proprio perché chiuso nella sua perfezione, sottratto al flusso delle cose esterne e della Fortuna, sente che “non c’è alcuna differenza fra un tempo lungo e uno breve” (cap. XXI), “chi ha posto ogni giorno l’ultima mano alla sua vita, non ha bisogno del tempo”. Annullata la visione quantitativa del tempo il saggio vive l’attimo con la stessa intensità di un’eternità: “Affrettati a vivere e considera ogni giorno una vita”, che riecheggia l’oraziano: “Vivi ogni giorno come fosse l’ultimo della tua esistenza”. Cosi il sapiente può celebrare la sua vittoria sul tempo: “Molto dunque si estende la vita del saggio, egli non è confinato nel limite degli altri, lui solo è libero dalle leggi dell’umanità, tutti i secoli ubbidiscono a lui come a un dio”. `
Come a un dio: è l’indiazione, la deiformità. È questo il premio che la filosofia stoica fa brillare all’uomo quale compenso del più difficile dei comandamenti, quello di amare il proprio destino. È quell’amore del fato (amor fati), di cui spesso parla Seneca nelle sue opere. L’uomo non è un’isola, non è solo, ma fa parte integrante della vita del cosmo. “Un uomo siffatto” osserva Russel alla fine dell’opera che abbiamo già citato “si sente cittadino dell’universo, gode liberamente dello spettacolo che offre e delle gioie che arreca, non turbato dal pensiero della morte, perché non si sente realmente separato da coloro che verranno dopo di lui. È in questa profonda unione istintiva con la corrente della vita che si trova la massima gioia.”

Gianni Giolo