120 (?)
Luciano nacque a Samosata, città della Siria sull’alto corso dell’Eufrate, intorno al 120 d.C. Pochissime sono le notizie relative alla sua vita. Come egli stesso racconta in Il Sogno, iniziò il mestiere di scalpellino nella bottega dello zio, poi, in seguito a un incidente, abbandonò l’attività per darsi agli studi delle lettere. Imparò alla perfezione il greco e intraprese la brillante carriera di ‘retore’ (una via di mezzo tra avvocato e conferenziere), che lo portò a viaggiare molto. Contemporaneamente diede inizio alla produzione letteraria (esercizi retorici, conferenze e discorsi di vario argomento).
160/ 170 (?)
Intorno al 160 lasciò la retorica per dedicarsi alla filosofia: il Nigrino, racconto della sua visita a Roma al filosofo platonico Nigrino, e unica opera che dimostri rispetto per la filosofia, è considerato uno spartiacque nella vita di Luciano, il segno evidente di una crisi spirituale. In realtà il suo atteggiamento nei confronti delle dottrine filosofiche fu sempre lo stesso: un ironico distacco, che talvolta si traduce in una critica acre e pungente. Questo è il periodo migliore della creatività dello scrittore: dall’originale fusione del dialogo platonico con la commedia nuova traggono origine le sue opere più geniali e brillanti. Il corpus lucianeo comprende 86 scritti, non tutti autentici, dei quali non si possono stabilire le date di composizione. Genericamente si può dire che le opere più propriamente retoriche vanno attribuite alla produzione giovanile e quelle di prevalente interesse filosofico siano invece posteriori. Tra le opere sicuramente autentiche le più famose sono indubbiamente i Dialoghi, che ci presentano un mondo divino ormai svuotato di contenuto che non sia la convenzione letteraria (Dialoghi marini e Dialoghi degli dei), vivaci rappresentazioni dei tanti vizi e delle poche virtù umane in una ambientazione ultraterrena (Dialoghi dei morti), quadretti di
amori e gelosie mercenarie (Dialoghi delle meretrici).
Con i Dialoghi degli dei Luciano, sullo scorcio del II secolo d.C., inaugura il genere che ha nella sua opera un posto di primo piano. L’orizzonte della mitologia greca olimpica (e nei Dialoghi dei morti di quella eroica) diventa l’angusto orizzonte terreno delle debolezze, delle miserie e dei vizi degli uomini più comuni; il cinismo della rappresentazione è tale che il dramma della ‘decadenza’ di una grande civiltà non può che esprimersi nella forma di una tragicommedia; la stessa morte non fa paura, perché il suo squallido scenario ultraterreno differisce ben poco da quello della vita. Ma il brio, la trovata brillante, il paradosso graffiante sono irresistibili: se c’è amarezza, resta nell’ombra come nella ‘vera’ satira. Molto nota è anche la Storia vera, in due libri, che a dispetto del titolo racconta mirabolanti avventure di cielo e di mare, parodia dei resoconti di viaggi esotici allora di moda che pretendevano di far passare per vere le avventure più incredibili.
Tra le opere retoriche va ricordato il famosissimo Elogio della mosca, che costituì il modello dell’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. Apertamente satirici sono gli scritti in cui il filosofo cinico Menippo di Gadara, protagonista di alcuni dei Dialoghi dei morti, è portavoce delle idee di Luciano sul mondo degli uomini e degli dei e sulla critica a ogni sistema filosofico e religioso (Icaromenippo, Menippo o la negromanzia). Particolarmente sarcastici sono gli scritti contro i ricchi e i potenti del tempo, come Contro l’ignorante che compra molti libri. Luciano non risparmia critiche dure e violente anche contro i falsi filosofi (I fuggitivi, Il pescatore o i redivivi, Vite di filosofi all’asta), contro i presunti maghi, santoni e profeti (Gli amanti della menzogna, Alessandro o il falso profeta). Soprattutto in La morte di Peregrino la polemica filosofico-religiosa è fortissima e investe anche il cristianesimo. Fra le opere di dubbia autenticità si cita Lucio o l’asino, che tratta lo stesso argomento delle Metamorfosi di Apuleio.
170/ 180 (?)
Intorno al 170 Luciano ottenne l’incarico di amministratore provinciale in Egitto. Morì dopo il 180. La Suida dice che fu sbranato dai cani, ma si tratta di una malevola allusione alle sue simpatie per la filosofia cinica e alla sua irriverenza verso il divino.
Mitologia senza prospettive
“Nel caso che i marinai dicessero corna del loro capitano o gli ammalati del loro medico, ti pare che avrebbero qualche altra cosa fissa nella mente se non il modo con cui quel capitano provvede alla salvezza di quei marinai o il medico alla salute dei suoi ammalati?” L’imperatore Marco Aurelio, contemporaneo di Luciano, dà in questo suo ‘pensiero’ una penetrante interpretazione delle ragioni per cui si attacca un’autorità: proprio perché la si riconosce come tale, si ha in mente che cosa dovrebbe fare; nel ‘dirne corna’ si manifestano il risentimento e lo scandalo per il fatto che viene meno un servizio dovuto. Applicando all’opera di Luciano quest’interpretazione si potrebbe dire che gli dei della tradizione, e più ancora gli eroi, sono messi alla berlina, degradati e ridicolizzati, perché non corrispondono più ai bisogni dell’anima, non sono più in grado di fornire precetti e modelli etici, non hanno saputo evitare che nel mondo vincessero la menzogna, l’ipocrisia, la viltà, il vano e narcisistico individualismo. Marco Aurelio non è stato nominato a caso: in un’età di profonde trasformazioni morali e religiose, di fronte al travaglio delle coscienze, nel clima della nuova spiritualità che va diffondendosi a macchia d’olio, l’imperatore incarna, se non altro come autore dei Colloqui con se stesso, l’uomo che non cessa di porsi domande e di cercare risposte, mentre Luciano si attesta sul fronte dello scetticismo e del cinismo e preferisce lo sberleffo alle lamentazioni dei moralisti.
I Dialoghi degli dei sono frutto quindi di un ingegno acre, pungente, scettico, ironico, beffardo e mordace, e obbediscono all’intento dissacratorio di combattere l’oscurantismo religioso, o a quello satirico di colpire la stoltezza delle credenze tradizionali. Luciano continua una critica che ha un’antica ascendenza letteraria risalente alla Sofistica e in particolare a Euripide, i cui dei, metafora delle istituzioni e delle convenzioni che il corpo sociale ha imposto a se stesso, costituiscono il punto di riferimento, esposto al dubbio e alla confutazione, per l’agire e il pensare umani. L’uomo del tempo di Luciano non crede più a questi dei perché hanno perso il loro ruolo, perché non sono più, come le divinità di Eschilo, “coloro che stanno seduti al focolare della città”, né sono più in grado di garantire la giustizia e la moralità del mondo. Questi esseri immortali appaiono troppo terreni, troppo deboli, troppo emuli delle passioni e degli errori umani.
La cifra interpretativa ci viene fornita, nel nono dialogo, dalle parole stesse di Zeus: “E tutta colpa mia che amo troppo gli uomi ni fino a farli nostri commensali”. Zeus si definisce “filantropico oltre misura” e quasi tutti i dialoghi sono incentrati sull’unico tema dell’eccessivo amore degli dei per gli uomini, che li degrada al rango di maldestri seduttori e goffi dongiovanni libertini. In particolare Zeus viene rappresentato come un sovrano annoiato che, insofferente dell’Olimpo e della compagnia degli dei e delle dee (in particolare della moglie Era, petulante e brontolona), si trasforma e si camuffa in tutte le maniere, prendendo le forme più strane di satiro, di toro, di giovenca, di cigno, di aquila, di pioggia d’oro pur di collezionare come amanti una lunga lista (che ricorda quella di Leporello) di donne mortali.
Se Euripide, nell’Eracle, per questo comportamento pone in bocca ad Anfitrione parole di fuoco contro il re degli dei: “Ma tu, tu che hai saputo intrufolarti come un ladro nel letto di una donna e rubare la sposa di un altro... o sei un dio imbecille o non c’è giustizia nelle tue fibre”, oppure a Cadmo, nelle Baccanti: “Non è bello che gli dei uguaglino i mortali nelle loro passioni “, Luciano, al contrario, con piglio sarcastico e sardonico compatisce la condotta insolente e immorale del re degli dei, appellandosi ai topoi della potenza irresistibile e invincibile di Eros e della forza cosmica e universale dell’amore che regna sovrano sugli uomini e sugli dei: “Come sei terribile e come tieni tutti in tuo potere” (XX), commenta stupita Afrodite a Eros, che osserva spavaldamente: “Che male faccio a mostrarvi come sono belle le cose belle?” Lo stesso Zeus ha parole di comprensione (e qui Luciano si permette di modificare il mito) per il mortale Issione che si è innamorato di sua moglie Era dicendo: “Amore è qualcosa di violento ed esercita il suo potere non solo sugli uomini, ma anche su noi dei”, al che Era indignata replica: “Non c’è dubbio che di te è padrone assoluto e ti porta su e giù menandoti, come si dice, per il naso” (IX). In Luciano si assiste dunque, in un clima beffardo e irriverente, a quell’incontro fra uomini e dei esaltato, con tocco mirabile e suggestivo, nelle Nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Galasso: “Verso il crepuscolo divamparono migliaia di fiaccole. Zeus camminava per le strade di Tebe. Questa città gli piaceva. Gli ricordava il cielo. Si ritrovarono tutti a banchetto, su seggi d’oro. Zeus e Cadmo toccavano la stessa tavola, sedevano accanto, si versavano a turno il vino”. Se in Galasso si sente un’immensa nostalgia per questo momento unico nella storia mitica dell’umanità, in Luciano ci sono solo il sorriso canzonatorio e la compiaciuta demitizzazione di questi dei che hanno rinunciato a essere tali perché troppo inquieti, turbati e sensibili alle bellezze e alle seduzioni della vita mortale.
Ma Luciano non si proponeva solo di stigmatizzare e di criticare. Come nota Dario Del Corno, la riduzione comica delle divinità tradizionali, colte nelle loro vicende di amori, gelosie, liti e pettegolezzi, intente a scambiarsi confidenze, indiscrezioni, rimbrotti, “vuole offrire al pubblico un divertissement letterario”, ricorrendo al mondo lussureggiante del mito, che non viene grossolanamente alterato ma maliziosamente e abilmente sceneggiato. Non manca però nello scrittore satirico un senso di disincantata ammirazione per la prima generazione divina, quella anteriore a Zeus e agli Olimpici, quando pone in bocca a Elios, a proposito della reIazione di Zeus con la mortale Alcmena, questa battuta: “Però, Ermes, diciamocelo fra di noi, queste cose non succedevano al tempo di Crono”. L’età di Crono, identificata genericamente con l’età dell’oro, viene vista come il tempo dell’ordine, della moralità, dell’armonia fra cielo e terra e della separatezza, in cui, come dice Platone nel Simposio, “Gli dei non si me-scolano con gli uomini... ora invece, per una misera donnetta, bisogna che l’universo sia messo sottosopra” (XIV).
Il tema dell’amore “che scioglie le membra, dolce-amara, invincibile creatura”, come lo cantava Saffo, ritorna marginalmente anche nel mondo dell’Oltretomba, dove si svolgono i Dialoghi dei morti (XXII, XXVII e XXVIII), nei quali però le passioni, i vizi, le debolezze e le vanità degli uomini acquistano una dimensione tragicomica: visti dal punto di vista dell’aldilà i grandi valori della vita greca, esaltati da Omero e da tutti gli altri poeti, come la gloria, la fama, la forza, il successo, il prestigio, la bellezza, rivelano la loro sostanziale inutilità e follia. Ricorrente protagonista e riferimento costante è il filosofo cinico Menippo, vissuto nel III secolo a.C., più di quattro secoli prima di Luciano, che possiede la suprema saggezza del ‘conosci te stesso’ e sa che i fasti della ricchezza e del potere sono passeggeri, precari e transeunti e che nessun uomo deve attentare alla libertà e alla dignità degli altri, come fecero i superbi sovrani dell’Oriente. Solo Menippo, il ‘cane’, può permettersi di deridere e offendere i potenti della terra come Creso o Sardanapalo (III) chiamare “essere immondo” Serse che aveva portato il terrore nel mondo ellenico durante le Guerre persiane, dare del folle al filosofo Empedocle e dell’imbroglione ignorante a Socrate, universalmente ritenuto l’emblema della sapienza greca (VI).
Dall’abisso infernale dell’Ade gli dei sono visti come dominati e violentati dal tedio di un’esistenza sempre uguale. È il caso del centauro Chirone, il saggio maestro di Achille e di tanti altri eroi, che rinuncia alla sterile condizione divina (“non era più un piacere godere dell’immortalità”) e si appaga della condizione di ombra fra le tante, liberata dai monotoni bisogni della vita (VIII). Ma Menippo lo avverte che anche l’Oltretomba non gli venga a noia ed egli si veda costretto a cercare un’impossibile esistenza ulteriore.”Sotto il traslato” osserva il Del Corno “è il riflesso melanconico e beffardo di uno stile di vita senza prospettive, qual era quello della Grecia sottomessa e appagata dal dominio romano. Eppure ancora greco è il consiglio estremo che offre Menippo: vivere la realtà, e affidarsi a essa senza rifiutarne alcuna esperienza.”