Confessioni

Presentazione

Sant’Agostino: la vita e le opere

354

Nasce a Tagaste, in Numidia, da Patrizio e Monica.

361 /367

Compie i primi studi a Tagaste e successivamente a Madaura.

370

Non potendo proseguire gli studi per difficoltà economiche ritorna in famiglia e si abbandona a una vita di sregolatezze.

371/2

Riprende gli studi a Cartagine grazie all’aiuto finanziario di Romaniano. Gli muore il padre. Si lega con una donna (di cui non si conosce il nome), senza sposarla, e le rimane legato per quattordici anni. Nel 372 gli nasce un figlio, Adeodato.

373

Profondamente impressionato dalla lettura dell’Ortensio di Cicerone si sente trasportato da uno straordinario amore per la sapienza. Si lascia influenzare dalle dottrine dei Manichei e diventa ‘uditore’ della loro setta.

374

Insegna prima grammatica a Tagaste e poi retorica a Cartagine.

383

Si incontra con Fausto, noto vescovo manicheo, ma ne rimane deluso e si stacca gradualmente dalla setta. All’insaputa della madre si reca a Roma sperando di ottenere maggiori soddisfazioni professionali. Si accosta alle dottrine dei Neoaccademici.

384/385

Ottiene l’insegnamento di retorica a Milano. Conosce sant’Ambrogio e ascolta assiduamente i suoi discorsi. Monica, la madre, lo raggiunge a Milano. Allontana la donna che gli aveva dato il figolio Adeodato e fa progetti di matrimonio.

386

E’ l’anno della conversione. Vi contribuiscono in maniera determinante i colloqui con l’amico Nebridio e la lettura delle Lettere di San Paolo. Rinuncia al matrimonio e si ritira a Cassiciaco per prepararsi al battesimo.

387/388

Durante la notte pasquale (24-25 aprile del 387) riceve il battesimo da sant’Ambrogio, insieme con il figlio Adeodato. Decide di recarsi in Africa per ritirarsi a vita monastica. Durante l’attesa, a Ostia, gli muore la madre. Torna a Roma e, dopo circa un anno, ritorna in Africa e vi fonda un monastero a Tagaste.

391 

A Ippona (l’attuale Bona. In Algeria), per acclamazione di popolo, viene consacrato sacerdote e continua la sua vita monastica.

392/396

Polemizza con i Manichei e i Donatisti. Nel 395 o 396 viene consacrato vescovo e succede in questa veste a Valerio.

397/398

Scrive le Confessioni.

400/430

Scrive opere teologiche, filosofiche, commenti biblici e il capolavoro La città di Dio,  alla cui composizione attende per una quindicina d’anni. Muore a Ippona il 28 agosto del 430, mentre i Vandali assediano la città. Il suo corpo, per sottrarlo alle profanazioni vandaliche, viene portato prima in Sardegna e poi a Pavia e deposto nel monastero di San Pietro in Ciel d’Oro, dove, in seguito, viene commissionato a Bonino da Campione il magnifico monumento sepolcrale.


“Spera e persevera finché sia passata la notte”

“Per dissipare i suoi timori consiglierei la lettura di sant’Aogstino”: questo l’invito che il papa Giovanni Paolo II rivolge al suo interlocutore nel libro Varcare la soglia della speranza.  Non c’è libro più adatto delle Confessioni per dare un messaggio di fiducia e di speranza all’uomo che sta andando verso il Duemila, un libro prediletto dallo stesso Agostino, considerato attraverso i secoli fino a a oggi uno dei capolavori della letteratura mondiale, un libro in cui culmina il travaglio umano e culturale del mondo antico che aveva condensato la sua saggezza nell’invito epicureo del godi il presente (carpe diem), cercando il senso della vita e della felicità umana nella breve luce dell’attimo che fugge, senza preoccuparsi dell’incertezza del domani. “Vivi ogni giorno come fosse l’ultimo della tua vita” (omne crede diem tibi diluisse supremum), raccomandata Orazio. E Seneca ribadiva. “Vivi l’oggi”, aggiungendo “cesserai di temere, se cesserai di sperare”. Tutta la sapienza antica era d’accordo nel bandire dall’orizzonte dell’uomo la speranza. Ancora Seneca: “Il saggio non spera e non desidera nulla e non si lascia andare alle cose incerte”, ripreso qualche secolo dopo da Severino Boezio: “Non sperare e non temere nulla”.

  A tutto questo mondo e a questa cultura che aveva rinunciato alla speranza Agostino contrappone il suo: “spera e persevera finché sia passata la notte” (spera et persevera donec transeat nox, XIII, 14). La vita umana non si identifica con la luce del sole, come avevano cantato i poeti latini e greci, ma con l’attesa della luce di Dio: “Questa è la Luce, è l’unica Luce, e un’unica cosa sono coloro che la vedono e la amano” (X, 34). L’essenza dell’eternità per lui è, come nota Hans Urs von Balthasar, ‘vedere Colui che vede’. La vita diventa così una “dolcezza che nasce dalla speranza che tu, o Dio, ci ascolti” (IV, 5), dolcezza che si donfa “nell’immensa grandezza della misericordia e della bontà divina” (X, 29).

 Giacomo Leopardi, sotto lo pseudonimo di Giulio Rivalta, si proponeva di scrivere il racconto della sua vita intitolandolo Storia di un’anima, ma non riuscì mai a portare a termine questo suo progetto giovanile. Egli forse si prefiggeva di emulare la più famosa storia di un’anima del mondo antico scritti da sant’Agostino che è la storia della liberazione della sua anima dai legami della terra e del peccato per sciogliersi e “gettarsi” totalmente in Dio. Le Confessioni come il Simposio di Platone, l’Itinerario della mente in Dio di san Bonaventura, la Notte oscura di san Giovanni della Croce, il The Flaming Heart di Crashaw  sono il racconto del pellegrinaggio di un’anima sulla via della salvezza, la registrazione delle tappe della “via mistica”, mediante la quale l’anima “esce da se stessa” per trovarsi di nuovo trovando Dio, il viaggio dello spirito dal temporale all’eterno.

   Il messaggio profondo che Agostino ci vuole dare, nota A.E. Taylor, è quello stesso di Platone nel Fedone e cioè che la ‘deiformità’, lo ‘sciogliersi dell’anima in luce’, nella luce di Dio, è il compito unico e vero dell’uomo. 

Le  Confessioni sono innanzi tutto un’autobiografia, un documento storico, ma anche una testimonianza, in cui l’autore proclama la sua fede (confessio fidei) in un dio buono e onnipotente, che solo è degno di lode (confessio laudis) da parte di un uomo peccatore (confessio peccatorum). La prima autobiografia della letteratura latino, ci informa Cicerone, era stata scritta da Emilio Scauro (console nel 115 a.C.), e Tacito ci ricorda che era costume generalizzato dei grandi personaggi romani raccontare le loro imprese e la propria vita, e questo non per presunzione o ambizione, ma per omaggio alla schiettezza dei costumi (fiducia morum). Così faranno Cicerone, Sallustio, Seneca, Marco Aurelio, Elio Aristide che, nei Discorsi sacri,  stende un diario ei suoi quotidiani rapporti con il divino. Agostino però parla e scrive rivolgendosi ininterrottamente a Dio, quasi fosse il suo unico destinatario. Dio che ci viene presentato come guida, maestro e salvatore: “Tu, o Dio, mi avevi preso alla tua scuola per vie mirabili e segrete” (V, 6), “Mirabile fu in me il tuo operato” (V, 7).

   Il dio di sant’Agostino non è il dio statico ‘pensiero di pensiero’ di Aristotele, ma un dio dinamico, come il dio del Manzoni che “v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare e nello stesso tempo vi attira”, un dio che assedia: “Ero assediato da ogni parte da te” (undique circumvallabar abs te, VIII, 1). Un dio “altissimo e dolcissimo” che vuole solo condurre i suoi figli alla gioia eterna: “Erano le tue mani, o mio Signore, che nel segreto della tua provvidenza, non abbandonavano la mia anima” (V, 7).

   Una biografia che ha come centro non l’io narrante ma il Dio narrato, non il salvato ma il Salvatore, un’autobiografia quindi geocentrica, in cui Dio è il protagonista che fa sì che le Confessioni siano innanzi tutto una confessio laudis, un canto di lode, che precede di dieci secoli il Cantico delle Creature di san Francesco, un inno del santo e di tutto il creato (si veda il grandioso cap. XIII del settimo libro) alla bontà e alla misericordia divine.

   Le Confessioni  sono inoltre un libro di ricerca della verità. Il cammino esistenziale visto come indirizzato tutto alla ricerca del vero ha ascendenze remote. Socrate dedicò tutta la su avita e morì per questo scopo. Già i viaggi di Platone, il suo errare tra esperienze fallimentari fino alla scelta finale contemplativa, ne costituiscono l’archetipo. Il Convito soprattutto delinea le tappe di questo itinerario verso la verità: i discorsi ‘falsi’ di Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane, Agatone che precedono il discorso ‘vero’ di Socrate sono gradini di un progressivo avvicinamento all’autentica natura del bene. Così in Agostino la conquista della verità (percepito veritatis, VIII, 5), avviene nel corso di una difficile, faticosa e angosciosa ricerca durata dodici anni, per fasi di graduale accostamento alla certezza perfetta e assoluta. Il cammino inizia a 19 anni con la lettura dell’Ortensio di Cicerone che lo spinge a dedicarsi alla sapienza: dapprima il giovane segue la dottrina manichea, poi l’abbandona per aderire allo scetticismo accademico, successivamente fa proprio lo spiritualismo neoplatonico per approdare definitivamente alla filosofia cristiana. Alla fine la rivelazione radiosa della luce della verità: “Entrai e vidi sopra la mia intelligenza la luce immutabile” (intravi et vidi supra mentem meam lucem inconmutabilem),  “Chi conosce la verità la conosce e chi la conosce, conosce l’eternità: la conosce l’Amore! O eterna verità, o amore vero, o amata eternità!” (VII, 10).

   Come Lucrezio davanti alla rivelazione delle bellezze dell’universo e alla contemplazione delle sedi luminose degli dei prova un “divino piacere misto a un fremito arcano” (quaedam divina voluptas atque horror), così Agostino davanti alla visione della luce beatifica di Dio esclama con un ineffabile ossimoro: “E tremai d’amore e di terrore” (et contremui amore et orrore). Come nel Convito di Platone la Verità quindi non si conosce ma si vede, si coglie per illuminazione in un momento supremo di estasi e di amore. E come nel Convito la verità è paradossalmente rivelata a Socrate da una donna, Diotima,  così nelle Confessioni la figura psicagogica che conduce Agostino al bene sommo è Monica, la madre che svolge la funzione di generare il figlio alla luce isica e spirituale attraverso un parto dolorosissimo fatto di gemiti, di pianto, di lacrime e di preghiere incessanti a Dio. “Il travaglio di mia madre” confessa il figlio “di partorirmi in spirito fu maggiore di quello con cui mi aveva partorito alla carne”. (V, 9) E’ lei, nella pagina sublime dell’estasi, che apre il cuore del figlio alla felicità eterna “che nessun occhio vide, nessun orecchio udì, che rimane inaccessibile a mente umana” (IX, 10).

   Nelle Confessioni culmina tutto il travaglio del mondo antico nell’elaborazione del concetto di uomo: dall’originario ideazione pessimistica dei Greci che contrapponevano gli uomini effimeri e infelici agli dei beati e immortali, alla visione latina ottimistica e concreta di Terenzio: “Sono uomo, e nulla di umano stimo a me estraneo” (homo sum, umani nihil alienum puto), che viene reinterpretata da Seneca: “Che essere spregevole l’uomo, se non si sarà innalzato al di sopra delle cose umane!” (quam contempla res est homo, nisi supra humana surrexerit!), alla magnifica e penetrante definizione di sant’Agostino : « Che grande abisso, che grande mistero è l’uomo stesso!” (grande profundum est ipse homo, IV, 14). Quell’aggettivo  ‘profondo’ che Lucrezio aveva usato per esprimere l’infinità e incommensurabilità dell’universo e che Seneca aveva impiegato per evidenziare l’infinito scorrere del tempo viene trasferito e interiorizzato per  raffigurare l’immensità senza confini dell’abisso dell’animo umano. Esso è infinito perché contiene in sé la Verità e la Verità è Dio.