SILVIA CALAMATI

“QUI BELFAST”. IL NUOVO LIBRO DI SILVIA CALAMATI. LA PACE SENZA GIUSTZIA DELL’IRLANDA DEL NORD.

“Qui Belfast”, il nuovo libro della vicentina Silvia Calamati,  è stato presentato a “L’era del libro – Festival dell’Editoria indipendente” di Pontedera (5 ottobre)  e al “Pisa Book Festival” (11 ottobre) e  all’importante “FestivalStoria” di Torino il 19 ottobre. La Calamati ha inoltre vinto in questi giorni il concorso “Una foto da tramandare”, istituito nell’ambito della terza edizione di Industria FotoFestival. La sua foto premiata una bambina dagli occhi azzurri che regge un manifesto contro i famigerati “proiettili di plastica” nel corso di una manifestazione svoltasi a Belfast nell’agosto del 1997. La foto è stata premiata dalla giuria come “scatto che dovrà sorprendere i posteri per la propria carica emotiva”.

Giornalista e scrittrice la Calamati si è sempre occupata della questione irlandese dal 1982. Ha vissuto due anni a Dublino e trascorso lunghi periodi a Belfast. Tra il 1990 e il 1995 ha seguito il problema dell’Ulster per il settimanale “Avvenimenti”. Dal 1999 collabora con Rainews24. Ha curato la traduzione di “Un giorno della mia vita” di Bobby Sands, il primo dei dieci giovani repubblicani irlandesi che nel 1981 si lasciarono morire di fame nel carcere di Long Kesh, a pochi chilometri da Belfast, per rivendicare lo status di prigioniero politico.  Ha tradotto e curato “Guerra di liberazione in Irlanda. La Chiesa del conflitto”, scritto dal sacerdote nord-irlandese Joseph McVeigh. Nel 2001 ha pubblicato “Figlie di Erin. Voci di donne dell’Irlanda del Nord” e l’anno successivo la versione in inglese “Women’s stories from the north of Ireland”. Per la sua attività di giornalista e scrittrice nel 2002 le è stato assegnato a Belfast il premio internazionale Tom Cox Award.

“Qui Belfast” è una raccolta di articoli, pubblicati nel corso di vent’anni, con cui Silvia Calamati, oggi collaboratrice di Rai News 24,  cerca di aprire ancora una volta una breccia nel muro di omertà e connivenze costruito attorno al conflitto nord-irlandese: una censura il cui prezzo più alto è stato pagato da migliaia di cittadini innocenti. Girando in lungo e in largo le sei Contee nord-irlandesi la Calamati ha raccolto le voci di gente comune, ma anche di personalità di spicco del mondo politico e culturale e religioso. Ha inoltre seguito il difficile processo politico che ha portato, dagli inizi degli anni Ottanta, alla firma dello storico “Accordo del Venerdì Santo” dell’aprile 1998.

Nonostante tale accordo non si è ancora giunti a una “pace con giustizia” in Irlanda del Nord. Perché sono ancora a piede libero i mandanti dell’assassinio degli avvocati Pat Finucane e Rosemary Nelson, uccisi rispettivamente nel 1989 e 1999? Perché non si conoscono ancora i nomi dei killer del giornalista Martin O’Hagan, assassinato nel 2001? E perché non hanno avuto ancora giustizia le famiglie delle moltissime persone uccise in questi anni a causa della politica di collusioni tra soldati, polizia, servizi segreti e gruppi paramilitari? Perché, infine, le leggi, le istituzioni e  le strutture che hanno permesso tali collusioni e violazioni dei diritti umani non sono state ancora eliminate?

Oggi il tentativo di far affievolire in tempi brevissimi una memoria storica di un conflitto in cui Londra ha avuto pesantissime responsabilità si scontra con il pressante bisogno di portare alla luce la verità su quel che è accaduto, così come richiesto dai familiari delle vittime, dai più prestigiosi organismi internazionali per i diritti umani e da giornalisti coraggiosi e indipendenti (come Brian Feeney, del quotidiano The Irish News di Belfast, o Roy Greenslade, del londinese The Guardian), i cui articoli sono riportati in questo libro.

Così scrive Calamati nell’introduzione: “Nel mio lungo rapporto con l’Irlanda del Nord è sempre stata la morte di una persona che mi ha spinto a scrivere o a tradurre, di volta in volta, un libro. Qui Belfast, invece, nasce a seguito di un progetto che è stato recentemente reso pubblico dalle autorità britanniche. L’idea è quella di smantellare il carcere di Long Kesh (quello in cui Bobby Sands e altri nove giovani detenuti irlandesi si lasciarono morire di fame nel 1981, dopo anni di durissime lotte carcerarie), per “riutilizzare” l’enorme area in cui sorgeva la prigione. Durante la conferenza stampa  di presentazione del progetto, tenutasi nel gennaio 2007, il ministro David Hanson ha dichiarato che l’intenzione è quella di creare un imponente stadio per le partite di rugby, calcio e gli sport gaelici. “L’idea è ancora in fase di elaborazione, ma la nostra intenzione è quella di avere uno stadio internazionale per un pubblico internazionale. Sarà uno stadio in cui ogni posto a sedere sarà il migliore, un vero modello di confort, facilità di accesso e durata nel tempo”, ha assicurato John Barrow, portavoce di Hok Sport, l’importante studio di architettura londinese che fa parte del team incaricato dal governo di stilare il progetto. Secondo quanto già annunciato nel maggio 2006 da Hanson lo stadio, che dovrebbe avere una capienza di 38500 posti, potrà servire anche per manifestazioni di massa e concerti all’aperto. L’area verrà dotata di alberghi di alta qualità, caffè, bar, cinema multisale e, probabilmente, anche di una pista per il pattinaggio sul ghiaccio. Verrà inoltre creato un non meglio definito International Centre for Conflict Transformation (ICCT, “Centro Internazionale per la trasformazione dei Conflitti”) utilizzando “alcuni edifici già esistenti”, tra cui, a quanto pare, uno degli otto Blocchi H che formavano la prigione, nonché l’ospedale, la chiesa del  carcere. La zona, in cui sorgeranno estesi spazi abitativi sarà dotata di aree espositive, parchi giochi per bambini, strutture sportive per i residenti. Tutto questo “incoraggerà investimenti nell’area, sotto la supervisione del governo”.

“L’Irlanda del Nord deve girare pagina”: questo è il motto che sta alla base di tale decisione. Dopo trent’anni di conflitto, oltre 3.700 morti e una degradazione sociale ed economica che ha fatto per lungo tempo da cornice alla guerra. “Nel corso degli anni – scrive la Calmati – mi sono recata più volte a Long Kesh. Nel 2003, sulla base dell’”Accordo del Venerdì Santo”, il carcere è stato chiuso e tutti i prigionieri sono stati rilasciati. Da allora ho avuto modo di visitare Long Kesh altre due volte, nel maggio e nell’agosto del 2006. Appena in tempo, perché, nell’aprile del 2007, è giunta la notizia della completa demolizione del perimetro esterno delle mura del carcere. Credo fermamente che abbattere Long Kesh sia come voler far sparire dalla faccia della terra il campo di concentramento di Auschwitz o quello di Dachau. All’interno di quei famigerati luoghi dell’orrore che sono stati per anni i Blocchi H è stata scritta una delle pagine più tragiche della storia dell’Irlanda del Nord. Il  carcere di Long Kesh  non dovrebbe sparire non tanto per ribadire l’infamia di chi lo gestì in modo così disumano per tutti quegli anni, ma soprattutto perché rimanga un monito per quelli che verranno dopo di noi, esattamente come lo sono Auschwitz e tutti gli altri campi di concentramento in giro per l’Europa: ricordare che un orrore simile non deve ripetersi più”. La decisione di abbattere Long Kesh risponde all’unica logica di gettare “una colata di cemento” sugli ultimi quarant’anni di storia dell’Irlanda del Nord. Distruggendo quell’edificio si vuole distruggere la memoria storica degli orrori perpetrati in esso.

 

Gianni Giolo

 

S. CALAMATI, Qui Belfast, Edizioni Associate, euro 16,00