MARIO DALLA PALMA

IL COLORE DELL’ERBA

 

“Tormento e gioia della memoria. Quel riandare a momenti lontani particolari irrepetibili però intatti nell’anima, a volte, come appena accaduti. Siamo anche ciò che siamo stati. Quella strada, in un giorno di pioggia, continuo lo striscio dei tergicristalli, alberi immobili, lucidi, ai bordi dell’asfalto grigio perla, bagnato.  Sullo sfondo profili di montagne simili a cartoni appena adagiati sulla pianura, grumi di nuvole bianche sovrapposte, tali sugli sfondi di vecchi quadri dapontiani.  La sua voce pare da un mondo diverso, nemmeno reale ma inventata, parole prive di senso, incomprensibili come nei sogni”. Ricordi, amori lontani, evocazioni di donne che sono folate di vento sul dosso di sabbia e sul mare. Dalla Palma appartiene a quel novero di grandi scrittori dal cuore inaffidabile perché sempre in preda alla passione che li inebria e li strazia, che sentono fortemente e poeticamente la seduzione di tutta la vita e il suo vorticoso fluire e s’innamorano di ogni fiore nella sua trascolorante fioritura, di ogni volto incantevole e di ogni sorriso fuggitivo, come ci si innamora della luce del meriggio, del canto delle cicale, dei primi bucaneve e degli oleandri in fiore.  La sua pagina incomincia sempre da un dato reale per poi trasportarci nelle plaghe più impensate della fantasia, e della cultura e della memoria. C’è in lui un qualcosa della rondesca prosa d’arte che però non sconfina mai nel virtuosismo, nell’arabesco o nel gioco funambolesco, perché il suo dettato è sempre ancorato alla realtà difficile e dolorosa del gioco infinito e sfinito delle  illusioni e delle delusioni. La rievocazione – ora elegiaca  ora dolorosa – del passato, una visione dolente della vita, il senso acutamente avvertito del passare delle cose che sono i temi della sua prosa ricordano le pagine affrante e desolate di Giorgio Bassani. “Il colore dell’erba” ricorda la prosa chiusa e solitaria  dello scrittore delle “Storie ferraresi” e del “Giardino dei Finzi-Contini”. Il personaggio Dalla Palma chiuso e solitario rievoca l’uomo solo, escluso, prigioniero del suo passato di Bassani: Clelia Trotti, la vecchia maestra socialista sorvegliata dalla polizia, Bruno Lattes, tagliato fuori dal rapporto cogli altri per la sua condizione di ebreo; Geo Josz, che reduce dai campi di sterminio è condannato a sentirsi un sopravissuto in una società che ha fretta di dimenticare il passato. Come “Dentro le mura”, racconti materiati di interni solitari dentro le mura antiche e stranianti ferraresi, quelle atmosfere magiche  e desolate di atti mancati, di rinunce, di delusioni cocenti,  di giovinezze perdute,  amori irredenti e sognati da  personaggi sconfitti nell’animo  e nella vita, come Oreste Benetti, “piccolo uomo dai capelli grigi che aveva un po’ del soldato e un po’ del prete”, che si innamora e sposa Lida Mantovani, la splendida ragazza  messa incinta e abbandonata da David giovane ebreo di ceto superiore arrogante e ambizioso. Egli la porta all’altare ma la condanna a una esistenza tranquilla e naturalmente triste. Non così, nel racconto dallapalmiano,  l’amore umbratile  e domestico, che non si concluderà mai,  di Giulio per Nicoletta “spigliata, estroversa,che manifestava giovinezza e voglia di vivere, occhi vividi di un verde molto chiaro, luminosi in contrasto col grumo corvino intenso dei capelli” che sboccia nella taverna osteria  di Via San Romano. Tutto è smorto e smemorato come quel triste motivo d’altri tempi “una semplice canzone da due soldi”: “qualche sera, prima della fine dei corsi e del rientro a casa, salvo il breve fuggevole ritorno per qualche esame, a giugno inoltrato, l’afa già gravava sulla città, mitigata a momenti da una benefica brezza del fiume, profumata d’erbe e terra bagnata. Sostavamo su una panchina di un piccolo piazzale un po’ fuori mano sempre non lontano dal castello, tra corso Porta Reno e via Garbali. Girandole di rondini a stridere contro un azzurro terso, privo di nuvole. Ad intervalli un suono smorzato di campana da una chiesa lontana”. Di questo amore resta solo la profonda delusione di Giulio e la tristezza di Nicoletta che “non voleva fargli del male”. Tutto finisce, come il verso del  poeta scrittore di Santo Stefano Belbo  Cesare Pavese, morto suicida nell’albergo Roma a Torino “certe cose accadono come vogliono”, come quel “raggio irrepetibile  di sole di fine giugno che sfumava lungo viale Mazzini”,  quel raggio che si attarda su  un amore “provvisorio” e lontano.

Ma in questo stupendo libro di Dalla Palma, che, come Bassani,  si rivela sempre di più uno dei più autentici narratori del nostro tempo,  non risuonano solo gli accenti flebili e struggenti dell’amore, ma anche le parole vive e perentorie della dignità civile e della libertà. Splendida la figura di Antonio  Zuccato, sorvegliato speciale dalla masnada fascista, discendente di Fogazzaro,  che “incurante di possibili ritorsioni” teneva lezioni e “insegnava ad amare la libertà e a odiare la tirannide”. Egli diceva ai suoi allievi: “bravi, bravi”. “Ci salutava più volte agitando le mani. Gli volevamo bene”.

 

Gianni Giolo

M. DALLA PALMA, Il colore dell’erba quando muore, Editrice  Artistica Bassano