BINO REBELLATO

 IL VERSO MAI SCRITTO

Nella poesia di Bino Rebellato – scrive Giacinto Spagnoletti – si avverte il primo risoluto proposito che sta alla base della lirica moderna, e non solo italiana: quello di creare un’armonia del dicibile, spingendo la “tensione di tutto l’essere / a una parola”. Questa frase, tratta dalla raccolta di liriche “L’ora leggera” (1989), sta ad indicarci il senso interno, e sicuro, di un rapporto mantenutosi costante attraverso il tempo e le occasioni, che per Rebellato sono stati ogni volta dominati dal suo fuoco spirituale”. In lui la poesia non vuole confrontarsi direttamente con la realtà, ma si origina nella sua rara capacità astrattiva, capace di cogliere dal tumulto della realtà esterna, dalla stessa fatica del vivere, un ordine e una calma spirituale, profili di verità interiore, in nome dei quali credere alla religione delle cose. Di qui l’accento posato da Rebellato sempre sulle medesime presenze umane, immagini per lui familiari di un “procedere insieme” in un unico corpo d’amore: “come se fossimo vibrazioni e voci / portate via dall’aria / che pulisce i ghiareti, / le piantine dell’orzo nate ieri”.  Nei suoi versi si respira quella meravigliosa armonia che guarda le cose disposte nel loro essere naturale, vicino alla vita e vicino alla morte: “In questa lunga notte / di gelo e di paura / soltanto l’altro in me, / l’altro me stesso / senza di me, / immune da ogni luogo e tempo; / il suo dolore / del mio sentirmi / inerte; / e nei miei occhi / che non sanno / non osano vedere, / pazienti, i suoi”. “Alla curva del fiume / si abbassano le voci / distinte appena; / le figure si fondono / col vapore dell’acqua…E quando tutto è limpido / fino al bosso laggiù, / fino alle bianche cime, / noi non ci siamo più”.                                           “Ci sono poeti, in ogni epoca, che per riservatezza o pudore – scrive Otello Fabris nella presentazione del libro “Il verso mai scritto. La poesia di Bino Rebellato”, che raccoglie gli interventi del convegno di studi svoltosi a Cittadella e a Campese  di Bassano del Grappa l’8 ottobre 2005 – rimangono a lungo conosciuti solo da una ristretta cerchia di amici d’elezione, ma con gli anni giungono a far conoscere in ambito più vasto l’essenza della loro opera e l’orizzonte intensamente vibrante della loro creazione. Uno di questi è Bino Rebellato, figura che ha attraversato per tre quarti di secolo la poesia italiana, dal 1929 ai primi anni del Duemila. Come si evince dalle molte raccolte, dai primi volumi fino a “Da una profonda immagine”, da “L’altro in noi” all’antologica “Non ho mai scritto il verso”, da “Il mio Folengo in dialetto veneto” ad “Appunti e spunti”, per giungere al volume postumo “In nessun posto e dappertutto”, contenente le poesie riscritte dell’autore nell’ultimo periodo e alcuni inediti, Rebellato è un poeta di assoluta originalità, difficilmente catalogabile in scuole o correnti. Il titolo dell’ultima raccolta ricorda il monito di Seneca a Lucilio: “Chi vuol essere dappertutto, non sta in nessun posto”. Rovesciando la frase, Rebellato ne ha rovesciato anche la prospettiva, attraversata da un bagliore d’assoluto che è anche espressione del paradosso moderno, rovello della sua ricerca di poeta, che contrappone la dimensione spaziotemporale all’estensione libera dell’io che compie il suo canto, al di sopra e al di là d’ogni avvolgimento della materia”.                                                                                                          Il primo saggio  di Andrea Zanzotto porta il titolo “Luoghi, ragioni e altro di Rebellato” che pone l’accento sullo spiritualismo dell’opera del poeta cittadellese. Spiritualismo sostanzialmente di origine cristiana, ma che non può essere semplicisticamente etichettato come religioso, perché coniuga anche elementi che provengono da un acuto e pervadente senso panico che si trova nell’aria ed emana dalla sostanza stessa del mondo. “Tuttavia – continua Zanzotto – nella formazione di Rebellato si percepiscono anche altri stimoli, altre ragioni che lo hanno condotto alla mossa finezza del suo dire poetico intimistico e insieme, per contro, alla partecipazione al vissuto sociale, pur se al di fuori di ogni ideologismo. E’ noto, per esempio,  quanto sia stata fedele e costruttiva la sua educazione musicale, basata specialmente sull’amore della pratica del canto gregoriano, che di per sé pare nato per donare equilibri sottili e un senso di benigna misura, anche al di là del presupposti religiosi. Ed ecco, al polo opposto, ma non meno importante, il fresco adolescenziale amore di Rebellato  per lo sport e sommamente per la bicicletta. Questa portava e porta dov’è ancora praticabile, nonostante l’orribile intasamento di ogni strada, a un continuo tu per tu con le siepi, le foglie, le erbe, i fossati occhieggianti, entro lo sgranarsi dei giorni e delle stagioni, entro la meravigliosa lena metamorfica della natura, agreste e non. Gli orizzonti campestri, così ben connessi in spazianti geometrie e nell’errabondo serpeggiare dei viottoli (fino ai vicini colli o ai monti) sono stati l’habitat di Rebellato e hanno condizionato il suo inserirsi nella natura stessa”.                                                                                                             Il saggio di Giorgio Bernardi Perini “Bino Rebellato: il bilinguismo come lingua poetica” sottolinea la tendenza di Rebellato di scrivere non solo poesie in italiano e dialetto, ma addirittura di coniugarli nella stessa poesia, creando un bilinguismo “funzionale a una variegata rappresentazione del suo cosmo cittadellese”: “allegra furia che boje de ‘e raìse dei fagari / pance sgaioòn scatarùni cai nogàre scavessàe / s’ciochi de piroe-pàroe / che nel rotondo giorno i contadini / goglottano col vìn clintòn a gloria delle mie contrade / cui guardano ubriachi / astronauti e nostromi senza carte e mappe / nel mezzo degli oceani / di vento e fuoco / allegra furia libera dai soli e dalle terre / libera dall’uomo da cui parli”. Questo bilinguismo non è una conquista dell’ultimo Rebellato, ma si trova anche nei versi giovanili e ne fa quindi un “marchio unitario” della sua poesia. “Già allora – continua Perini – il gusto preciso e la sapienza dell’incrocio lessicale mediato dalla felice, suadente scorrevolezza del ritmo hanno lo scopo di fissare per sempre in emblemi esistenziali paesaggi e scene del microcosmo cittadellese, tra Onara e Tergola,  dove una siepe  di gialli topinambur può diventare il confine del mondo”. Marco unitario e stilema della poesia di Rebellato che diventa “poetico monolinguismo” e “cifra assoluta del suo poetare” che Perini chiama l’”idioletto” del poeta, “una lingua in cui entrano e si fondono come componenti di pari dignità i materiali lessicali che Bino desume da tutte le fasi e da tutti gli strati della sua vita e della sua cultura, senza distinguere né gerarchizzare a priori tra lingua e dialetto comunemente intesi”.                                                                             Enrico Grandesso evidenzia la presenza del tema del fuoco nella poesia di Rebellato. “Donato da Prometeo agli uomini – scrive Grandesso – il fuoco ha virtù di purificare, ma può essere a un tempo elemento distruttore. Legato alla lavorazione della pietra, ha altresì carattere sacro, è custodito nei templi e vigilato da vergini consacrate; viene usato in cerimonie d’iniziazione, in riti di propiziazione; in ordalie, sacrifici e cerimonie funebri di creazione. Nella tradizione cristiana è mezzo sublime pentecostale di rivelazione divina, nonché simbolo dell’ardore mistico. Nei versi di Rebellato il fuoco è, con la terra, il più presente dei quattro elementi alchemici. C’è nella sua poesia un fuoco unito alla realtà terragna, espresso nella didascalia della XII Tavola inclusa nell’antologia d’autore “In nessun posto e da per tutto”: “Drento mi on core de fogo batéa col core de ‘a me tera”. E c’è un fuoco ugualmente legato all’io, terminale speculare della creazione che, in “Primavera in Val Sesia”, trova il poeta cantarsi nella similitudine dell’albero “che ‘l specia sora i crepi dei murassi / int’e maségne vecie dei tabià / siràndoe de fogo che go drento”. Il fuoco elemento scatenante, portatore di vita e distruttore e, in questa poesia, connaturato con l’intimo umano pulsante e con l’alchimia del canto poetico. Fuoco interiore ma anche esteriore proiettato nello schermo del mondo: “A un certo punto / ci prende un’ombra / e non sappiamo più chi siamo / e perché siamo qui. / L’estate brucia gli occhi / avvampa la montagna / tenebra fuoco immensità di un altro mondo”. “E’ il mistero – spiega Grandesso – di una natura che si disvela in SuperNatura, Utopia precipitante nell’universo illimite dove l’io brulica e il fuoco si staglia quale iperbole e scansione d’uno zenith-nadir rimbaudianamente dilatato e straniante”.

 

Gianni Giolo                                                                                                                                                                                                                                                

  IL VERSO MAI SCRITTO. LA POESIA DI BINO REBELLATO, a cura di O. Fabris e E, Grandesso, Nicolodi