RAFFAELE LA CAPRIA

CARO GOFFREDO

Raffaele La Capria,  e Giosetta Fioroni, invitati dalla Fondazione Benetton,  hanno presentato a Treviso il libro “Caro Goffredo”, omaggio  di Raffaele La Capria all’amico Parise. Andrea Zanzotto, ospite inaspettato, si è presentato per ricordare l’amico “Edo”: una vacanza a San Benedetto nel 1954 insieme a Ungaretti quando andavano a ballare tutti e tre insieme oppure le burle agli amici scrittori, specie a Gadda famoso per il suo umore nero e le sue ipocondrie. E i ricordi di Zanzotto si sono  mescolati a quelli di La Capria per rendere quella grande gioia di vivere che era propria di Parise che voleva aggredire la vita e, alla fine della vita, dal 1981 in poi,  anche la malattia (che lui diceva di “maltrattare”) che lo porterà via per sempre dal suo “Veneto barbaro di muschi e di nebbie”. “Come stai?” chiedeva, durante una delle solite telefonate, l’amico  Capria,  che da buon napoletano aveva promesso di portare Goffredo a Capri, e si sentiva rispondere: “Come vuoi che vada? Si tira avanti”. A Edo era rimasto il desiderio di fare il bagno in una certa spiaggetta di Capri, coi sassolini bianchi e l’acqua color acquamarina.

Ma durante una delle ultime, pochi giorni prima che morisse, Edo gli aveva risposto: “Sono diventato cieco, A Capri non ci andremo più”. L’amico allora per distrarlo gli diceva che ormai il mare ovunque non era più quello  di prima, che anche i sassolini bianchi di Capri erano ricoperti di una muffa di alghe marroni a causa dell’eutrofizzazione, che i ricci erano scomparsi e si rischiava sempre meno di pungersi con una spina, che le spiaggette solitarie, come quella dove lui voleva fare il bagno, erano tutte invase da un’orribile razza di bagnanti che arrivavano con motoscafi e si facevano lo shampoo o s’insaponavano per poi risciacquarsi nel mare. Edo rideva di queste descrizioni apocalittiche e diceva: “Ma è vero? E’ proprio così?”. E cosi rimpiangeva un po’ meno di non potersi bagnare più nelle azzurre acque capresi. Il tema di Capri ritorna nei Sillabari che sempre più emergono come una delle opere più grandiose e poetiche del ‘900. E’ una delle prose più fresche e felici intitolata “Estate”, dedicata a Mariolina,  la prima moglie vicentina di Goffredo. Il racconto comincia così: “Un giorno di ottobre sul battello Ischia-Capri un uomo appoggiato al parapetto di prua contro il vento e il sole guardava fisso e senza pensiero il blu del mare e le spume bianche. Disse: “L’estate è finita”, la gola si chiuse e non potè più parlare. Allora pensò: “Chissà dove sarà” e rivide accanto a sé su quello stesso parapetto di prua la moglie che non vedeva più da  molti anni, e come quell’estate la guardò. Aveva lunghi capelli castani raccolti a coda di cavallo ma battuti dal vento, un volto ovale timido e selvatico da suora orientale, cortissimi shorts bianchi, una camicetta di Madras scolorita, scarpe da tennis impolverate di rosso sui piedi nudi, pelle già scura, denti bianchi e forti un po’ convessi (spesso teneva la bocca chiusa). Aveva diciannove anni, non parlava quasi mai, si muoveva e camminava in fretta con confusione e grazia, spesso aveva fame, sete e sonno. Insieme non  avevano molti soldi, anzi pochi, ma erano molto felici e molto infelici come succede a quell’età. Litigavano moltissimo, lui la tirava per i capelli per non farle troppo male, certe volte la prendeva anche per il collo e stringeva, o le storceva un braccio, lei lo graffiava, soprattutto dava calci. Ma quel giorno di quell’estate erano abbastanza felici arrivando a Capri e lui avrebbe voluto dirle, vedendola così vestita: “Come sei graziosa” con vero imparziale entusiasmo; ma non lo disse per timidezza, per timore di essere troppo parziale e anche perché voleva fare un po’ il duro. Non avendo molti soldi e anche per gentilezza portarono da soli le valige (vecchissime, bellissime, con etichette Goa, Singapore), salirono con la funicolare, attraversarono la piazzetta, lei in fretta con gli occhi bassi perché qualcuno la guardava e arrivarono senza  fatica ma senza pause alla pensione Scalinatella. Nel percorso dalla piazzetta alla pensione lei sentì il profumo delle bougainvillées e vide il colore viola e morbido di quel fiore coprire un vecchio muro: il piccolo naso si arricciò un poco (lei annusava sempre tutto) e non disse nulla”. Una delle pagine più intense e trasognate del Parise dei Sillabari. Ognuno dei racconti – osserva La Capria – ha questa singolare qualità: sembra prelevato ancora stillante di vita da un vivaio di progetti frammentari, balenanti forse per un fuggevole istante nella mente dell’autore, progetti allo stato  puro di cui non è rimasto nulla se non un qualcosa di fluttuante – una risonanza – che passa attraverso quel  racconto che poi il Caso e l’Ispirazione ha voluto fosse scritto. Sicché ogni racconto porta in sé queste tracce di un tutto assente, ed è come teso e sospeso in mezzo ad altre trame che avrebbero potuto precederlo o seguirlo. Proprio per questo sembra strappato, pur compiuto com’è, a quel campo ancora germinativo della letteratura confinante con l’inespresso, di cui parla Giovanni Macchia a proposito dei progetti di Baudelaire. In ogni racconto dei Sillabari il mondo è tutto quello che accade, globalmente, non soltanto tutto quello che accade lì nel racconto; non una vita, ma tutte le vite, simultaneamente. Se leggiamo un determinato racconto sentiamo che tanti altri indeterminati racconti possibili sono già in movimento intorno a quello. Per esempio, nel primo racconto intitolato “Felicità” Max (uno dei ragazzi che in un giorno di grande caldo del 1944 sguazzavano in un canale di campagna vicino a Padova) vede da lontano dei giovani fascisti vestiti di bianco, con la pistola in pugno “che passavano dalla pistola al pettine per pettinarsi, e camminavano nella polvere della campagna tra i coccodé delle galline. “Perché l’eleganza deve essere così stupida?”, si chiedeva Max e immaginava che quei giovani vestiti di bianco con un distintivo all’occhiello della giacca prima o poi sarebbero stati fucilati”. E così nello stesso giorno  si può guazzare nell’acqua, vivere un momento di inconsapevole felicità, intrecciare sguardi che preannunciano destini diversi, udire il rimbombo degli aerei americani che vanno a bombardare Verona. Uno di essi viene colpito e vi si lanciano quattro soldati con il paracadute che saranno raggiunti e uccisi dai giovani fascisti. Nel racconto di Parise il mondo è proprio “tutto quello che accade”, non soltanto quello che l’autore sta raccontando. E tutto è equivalente, stridio di cicale e rombo di aerei, vita e morte, felicità e dolore.  Nei Sillabari tutto è indistinto eppure esiste. Ogni racconto è percorso da una energia germinativa che lo fa lievitare e che rende possibile quel miracolo di apparente noncuranza, per cui parole e frasi di una semplicità sconcertante, e quasi davvero da sillabario e quasi confinanti con l’inespresso, riescono a precipitare come un composto chimico per produrre quell’effetto globale e ineffabile nell’animo di chi legge.

 

Gianni Giolo