GIORGIO BOCCA

L’ANTISEMITISMO DI PIOVENE.                            

“Ero allievo ufficiale a Bassano – dice Giorgio Bocca – e mi trovavo in licenza a Cuneo. Ho accettato l’invito del federale a scrivere un articolo per un giornale locale in cambio di tre giorni di licenza”. Quell’articolo antisemita ha pesato per tutta la vita come una persecuzione e un’onta indelebile sulla carriera del grande scrittore partigiano. Ogni tanto qualcuno glielo ricorda come Pierluigi Battista che, nel libro “Cancellare le tracce”, accusa Bocca di “essersi abbandonato non ancora partigiano a poco onorevoli proclami antisemiti, proclami scritti  nel pieno delle persecuzioni antiebraiche di cui non sembra pentito”. A queste gravissime accuse Bocca risponde: “Non rispondo. E’ un argomento così disgustoso! E’ talmente in malafede, che mi perseguita così da vent’anni! Fingono che sia stato un esponente del fascismo. Ma non lo sono stato, non contavo niente. L’ho confessato pubblicamente tante volte. L’ho perfino raccontato in un libro, “Il provinciale”. Venti mesi di guerra partigiana, a rischiare la pelle tutti i giorni, non sono abbastanza come pentimento? I miei amici ebrei di Cuneo, i partigiani ebrei con i quali ho condiviso idee, paure, pericoli, non sono abbastanza per capire che cosa ho sempre provato per gli ebrei?”.              La stessa cosa è successa anche a Guido Piovene. Ne ha parlato diffusamente Sandro Gerbi nel libro “Tempi di malafede. Guido Piovene e Eugenio Colorni” (La Domenica di Vicenza, 17 dicembre 1999). Nel libro Piovene borghese, conformista e “tortuoso narcisista”, come lo ha definito Pasolini, viene messo a confronto con l’eroe della resistenza Colorni, che fu compagno di scuola dello scrittore  vicentino, ucciso dai fascisti il 27 maggio del 1944. Due personalità opposte e divergenti: Colorni, filosofo e matematico che si muove nella clandestinità della resistenza e della sua fede socialista e libertaria e Piovene, ben ammanicato nel meccanismo della  cooptazione fascista degli intellettuali, da sposarne la politica antisemita, firmando sul Corriere (1 novembre 1938) articoli in cui gli ebrei sono visti come “nemici e sopraffattori della nazione che li ospita”. Condiscepoli alla facoltà di filosofia di Milano, Piovene e Colorni si incontrano nel 1928 alle lezioni dei due maestri non allineati con la cultura ufficiale: il critico letterario e romanziere Borghese, che nel 1931 emigrerà negli Stati Uniti, e il grande filosofo kantiano della libertà Piero Martinetti, che sempre nel 1931 sarà tra i pochissimi professori universitari che rifiuteranno di giurare fedeltà al regime. Quando un gruppo di squadristi, il 6 febbraio del 1930, interrompe con una violenta gazzarra una lezione di Borghese, tra gli allievi che si battono in difesa del docente compaiono Colorni e Piovene: benché provenienti da ambienti diversi (Piovene dall’aristocrazia veneta tradizionalista e conservatrice, Colorni dalla borghesia ebraica illuminata e progressista) è maturata tra loro un’amicizia profonda, alimentata da comuni letture filosofiche e letterarie. I due però si dividono, dopo dieci anni di sodalizio nel 1931: Piovene, ai primi passi nel giornalismo ufficiale, dissemina in una serie di articoli riflessioni e frecciate antisemite, dirette a volte in modo piuttosto trasparente contro l’amico. Sembra che emerga in Piovene,  che si sta compromettendo con il regime in modo irrimediabile, un sordo risentimento contro tutto quel che Colorni rappresenta, contro la sua intelligenza che non verrà mai a patti con il fascismo, contro la sua tranquilla e irremovibile superiorità morale. Da quel momento i due si dividono inequivocabilmente: Piovene, vero virtuoso della riserva mentale incensa Mussolini e perfino il razzista Interlandi, ritagliandosi qualche precario spazio d’indipendenza negli scritti d’arte e di letteratura,  Colorni si impegna nella lotta antifascista e conosce la dura esperienza del confino a Ventotene. Ma se sul piano etico sono ormai irriducibilmente contrapposti, qualcosa sopravvive delle affinità intellettuali che li hanno uniti dieci anni prima. Quando, nella primavera del 1941, Piovene pubblica il romanzo “Lettere di una novizia” – che si apre con una sottilissima e geniale analisi della malafede – Colorni, ammirato, e forse commosso da quanto di autobiografico intuisce in quelle pagine, lo cerca e riallaccia il filo dell’amicizia interrotta; la partecipazione del romanziere pentito alla resistenza romana consoliderà più tardi il riavvicinamento. Nella Roma della lotta clandestina i due antichi compagni di studi riprendono il loro dialogo. “Colorni detestava – scrive Piovene – una certa filosofia, la filosofia dei sistemi. L’indagine scientifica gli aveva dimostrato che i grandi progressi dell’uomo sono compiuti quando viene distrutta una legge, che si credeva eterna, e invece è solo antropomorfica, dovuta al nostro desiderio di imporre al mondo noi stessi, con le nostre speranze e il nostro amore di quiete. Una scoperta, egli diceva, si compie retrocedendo da noi stessi, distruggendosi in parte, noi stessi e una delle leggi che noi poniamo a nostra immagine”. La tragica morte di Colorni non chiude la vicenda e i tempi di malafede. Piovene gli sopravvivrà per trent’anni, si riciclerà, un po’ avventatamente, nelle file comuniste, diventando “il conte rosso”, e non tutti gli perdoneranno con la stessa magnanimità dell’amico scomparso il suo poco edificante passato. Indro Montanelli, quando venne nel 2000 a Vicenza in occasione dell’istituzione del premio Piovene lo definì un “ambiguo”, un “tortuoso” e “un vile”, che però alla fine seppe riscattare se stesso affrontando eroicamente e stoicamente la morte. “Si potrebbe anche parlare molto male di Piovene.  – ha detto Montanelli – Nella sua carriera professionale si possono trovare anche dei punti  su cui lo si può criticare; è facilissimo criticare Piovene. Piovene ha avuto cedimenti, per esempio in politica, perché, ecco questo lo si può dire e spero che lo prendiate nel suo giusto peso, il coraggio non fu in genere una caratteristica di Piovene.Non lo fu sul piano politico, per la ragione semplicissima che lui alla politica non ci credeva, la politica non lo interessava. Se la politica gli imponeva di fare, di prendere alcuni atteggiamenti, lui li prendeva per la sua comodità, non per farci sopra qualche speculazione, e così aveva avuto dei cedimenti durante il periodo fascista e aveva avuto dei cedimenti anche dopo, durante il periodo, diciamo così, resistenzialista. Su questi cedimenti poi lui ha scritto un libro molto bello “La coda di paglia”. In realtà Piovene non aveva un’ideologia, aveva, al posto dell’ideologia, un rimpianto e questo rimpianto, non fremete per questo, andava al lombardo-veneto austriaco. Quello rimpiangeva Piovene, perché era fondamentalmente un conservatore”. Di Piovene antisemita parla anche Paolo Mieli nel libro “Storia e politica”, in un capitolo dedicato a Piovene dal titolo “L’antisemita nascosto”. La domanda sottintesa del libro è questa: “Come è possibile che importanti intellettuali che avevano scritte pagine antiebraiche, nel dopoguerra ebbero l’opportunità di rimuovere e minimizzare quel loro passato?”. Una domanda che rimane ancora oggi senza risposta.

                                                                                    Gianni Giolo