Vent’anni fa non esisteva il concetto di “identità veneta” e il Veneto non era né più né meno che un’espressione geografica, come diceva il Metternich dell’Italia del 1815. Non esisteva una coscienza diffusa di sentirsi “veneti” e non c’erano rivendicazioni di “veneticità”. Un veneto fino a vent’anni fa si identificava con la propria città o il proprio paese o con le sorti della nazione. E questo accadeva non solo nel Veneto, ma un po’ in tutta l’Italia. E’ alla fine degli anni settanta che incomincia la fortuna delle “piccole patrie”. In Italia, si era sull’onda delle istituzioni delle regioni che risale al 1970. Stava crescendo anche l’interesse scientifico, storiografico per la specificità degli spazi regionali, intermedi tra le comunità locali e gli stati-nazione. Su questo tema Mario Isnenghi ha radunato presso il dipartimento di Studi storici dell’Università “Ca’ Foscari” i maggiori studiosi veneti promovendo un dibattito che è stato pubblicato dalla rivista “Venetica 2003”. Marco Almagesti ha detto che nel contesto veneto si sono manifestati i primi segnali di incrinatura nei confronti del sistema politico formale, che si reggeva sulle fortune dei partiti della cosiddetta “prima repubblica”, quando sono emerse le specificità delle piccole e medie imprese che hanno determinato la crisi di rappresentanza politica che scaturiva da tale nuovo protagonismo. Secondo Claudio Povolo l’identità veneta affonda le sue radici nella struttura orizzontale della Repubblica veneziana che si contrappone a quella piramidale delle monarchie europee. “Alle soglie dell’unificazione italiana, – scrive lo studioso – ed ancora per qualche successivo decennio, le vicende storiche lagunari sono utilizzate per sottolineare una presunta diversità storica delle città (e dei territori che le appartennero per secoli) rispetto a uno stato che si prospettava, nelle sue linee di fondo, come un organismo accentrato e unificante. Il richiamo alla Repubblica era dunque funzionale ai ceti dirigenti veneziani per rivendicare una tradizione storica che, a loro giudizio, si era sempre caratterizzata per la sua struttura istituzionale incline alla concessione di autonomie e di ampie libertà nei confronti dei territori soggetti”. Agli albori dello stato italiano il mito celebrativo della Repubblica di Venezia viene contrapposto alla struttura centralistica e burocratica dello stato italiano, modellato sulla struttura piramidale della monarchia francese. Repubblica aristocratica insediata in una città lagunare, ma provvista di vasti territori situati sia nella penisola italiana che ad Oriente, la Serenissima si caratterizza da subito come un’organizzazione statuale che si contrappone vistosamente, per i suoi valori ideologici e, soprattutto, per la sua organizzazione, ai principati e alle monarchie europee. Primus inter pares il doge non può essere paragonato agli altri principi italiani ed europei, perché la sua attività si svolge quasi esclusivamente nell’ambito di organi collegiali. Egli governa i sudditi, non attraverso una corte che possa inglobare nel potere centrale la nobiltà locale, ma attraverso i patrizi veneziani, determinando quella nota separatezza politica e giuridica tra centro dominante e centri sudditi. L’assenza di una struttura gerarchica e la separatezza hanno profonde influenze sugli stessi ceti emergenti locali. Sia i lignaggi aristocratici della Terraferma (una gerarchia impostata sull’onore) che le famiglie borghesi cittadine e rurali (una gerarchia incentrata sulla ricchezza) non sono mai in grado di ascendere socialmente (se non per via di cooptazione) sino a entrare a far parte della struttura stessa dello stato veneziano. Questo scollamento fra centro e periferia è all’origine del muncipalismo che è una delle peculiarità fondamentali ed evidenti della società soggetta alla Serenissima. “Se il municipalismo fu (ed ancora è) - sottolinea lo storico – uno dei tratti della società veneta, la sua dimensione religiosa e parrocchiale fu tale da caratterizzare pure quella che possiamo definire la sua ambiguità culturale. La struttura parrocchiale svolse infatti una funzione rilevante nell’ambito del municipalismo veneto: e laddove non fu coincidente, fu comunque sempre in grado di prevalere connotando il rapporto assai stretto tra popolazione, le sue tradizioni e le sue consuetudini”. L’identità veneta quindi appartiene a un sostrato culturale connotato dalla diffidenza nei confronti dell’esterno e da valori fortemente pervasi dalla dimensione municipalistica e religiosa. Ma se il mito celebrativo di Venezia era elaborato esclusivamente in ambito accademico e volto a rivendicare i fasti della storia quello dell’identità affonda le sue radici negli strati più profondi della popolazione veneta sia cittadina che rurale.
Per Marco Fincardi, invece, l’identità veneta è un’invenzione dei centri di potere economico e dei giornali o pubblicazioni culturali sottoposti alla loro influenza. “Le costruzioni di identità fittizie, – scrive lo studioso – gli pesudoetnicismi, le ricomposizioni di memorie con passati inventati che poco o nulla hanno a che vedere con storia e tradizioni di un paese, rispondono a crescenti richieste di una società, come quella dell’Italia settentrionale, che negli anni ottanta e novanta ha visto dissolversi le tradizionale reti solidaristiche, che costituivano centri di coesione e di identità. Queste identità inventate, tuttavia, non creano reti socio-culturali idonee a ricompattare una società fragile e automatizzata dallo sgretolamento dei propri centri identitari, che in questo secolo hanno contribuito in modo decisivo a sviluppare con reciproci legami i sensi d’appartenenza sociale e territoriale, soprattutto nel Centro-Nord, e in particolare nella cosiddetta terza Italia”.
Gianni Giolo